16° Concorso Letterario Internazionale
MAILING LIST HISTRIA 2018
tutto il tema n pdf
INTERVTSTA SULLE CREDENZE POPOLARI E SUPERSTIZIONI
I NTERVISTATORE: Edy Cramer (nipote)
Ml: ,, Nona ti devi iutarme, la maestra me ga da de far una ricerca. ,,
NONA: ,,Cosa mio omo,una riceta?"
Ml (rido): ,,No una riceta nona! Go de scriver el compito sule credenze de una volta"
NONA: ,, AAAA go capi"
Ml: ,, Dime el tuo nome,quando e dove ti son nata"
NONA: ,, Me ciamo Nerina Cramer e son nata a Castagna el L5 dicembre del 1938. ,,
Ml: ,,Ti sa qualche credenza popolare?"
NONA: ,, Se ti senti cantar la civeta qualche d'un in paese morira. Se ti rompi el nido dela rondinela ti
gavara sfortuna. Se la rondinela svola baso alora piovara."
Ml:,, E dopo nona?"
NONA:"Speta che penso. Per el mal de recia se itiepidiva I'oio de oliva e se lo meteva in recia.
Quando i fioi nasceva ghe se meteva un bracialeto roso fato de fil roso o le calze ala riversa che non
ghe fasi strigarie le vecie del paese."
Ml:" Cosa ze le strigarie?"
NONA: ,,lnvidia e malochio mio omo. De note non se lasciava mai sciugar la roba."
Ml:" Perche?"
NONA:,, lveci idiseva che no porta ben."
Ml:,, Chi iera iveci?"
NONA: ,, I veci iera i mii noni, zii,bisnoni. De picia non dovevo andar fora de casa de note perche iera
la MORA in tel campanil"
Ml:,, La MORA?"
NONA: ,,1 diseva che iera una vecia con i denti grandi, ma non ze vero sa ! I fioi fina che non i vegniva
batezadi i doveva star sempre soto i copi perche portava mal, e no porta nanca ben girar la strusa de
pan sotosora, porta miseria. Se ti vedi el spasacamin tochite el boton, se el gato nero te pasa la
strada ti devi spudar tre volte."
Ml:" E qualcosa sula campagna?"
NONA: ,,Per i Santi e la Madona non se lavora la campagna perche no porta ben,i Santi i se devi
rispetar. Dopo, non ti devi romper el specio perche ti gavara sete ani de sfortuna, no se spandi ne el
sal ne el oio de oliva. I veci i diseva :,,De vener e de marti no se se sposa e no se parti". Per seminar e
piantar bisogna guardar la luna sul calendario e anche per podar e travasar se no no se ingrumara
niente. E soto la galina se meti covar sernpre un numero de ovi dispari perche se no no nascerà niente..."
Ml:,,Grazie nona, penso che bastera,quante robe nove che go impara e domani ghe contaro ala mia maestra."
Mia nonna rappresenta una delle voci storiche di Radio Capodistria. Ho voluto ripercorrere con lei i suoi anni giovanili. Per un po’ ritorna piccola anche lei, quando il suo nome era “la fia della radio”.
D: Perché ti chiamavano così, nonna?
R: La mia mamma, mio papà, mia sorella ed io abitavamo proprio dentro alla radio, non certo quella scatola che tu conosci, ma dentro a palazzo Tarsia che era la sede della prima radio nel 1945 … Come dirti ... il soffitto della nostra cucina era anche il pavimento di uno degli studi da dove parlavano in diretta.
D: Ma tu li sentivi e loro sentivano voi?
R: Il rumore non era un problema ma il profumo della cucina di mia madre sì.
D: Il profumo è buono, non disturba, come può?
R: A quei tempi il cibo era una cosa preziosa e il profumo ti solleticava lo stomaco e l’appetito, ma i poveri sanno essere generosi e allora mia madre riempiva il pentolino che dalla finestra di sopra calavano in un cestino fino alla nostra e così si divideva il pasto.
D: Come mai nonna abitavate proprio alla Radio?
R: Perché i miei genitori erano i custodi dello stabile. Mia madre puliva tutto l’edificio, mentre il mio papà preparava la legna per l’inverno e riempiva le stufe di tutti gli uffici. La porta di casa nostra non si chiudeva mai…La lasciavamo aperta per dare ospitalità a qualche bambino quando la sua mamma lavorava. C’erano molti ospiti nella cucina di Albina. Venivano per riscaldarsi un po’ nei giorni freddi, per bere un caffè o per trovare un piatto caldo o un letto per distendersi se si sentivano male.
D: Nonna ma allora tu non eri mai sola?
R: No, a dire il vero eravamo una sola e grande famiglia, motivati da una nuova ed entusiasmante esperienza, era nata così Radio Capodistria. Poi la sede sarebbe stata spostata proprio di fronte a Palazzo Tarsia che, a sua volta, sarebbe diventato la sede di TV Capodistria.
D: Non mi hai ancora detto perché ti chiamavano “la figlia della radio” ?
R: Perché gironzolavo un po’ dappertutto, gli ambienti della radio erano il mio parco giochi, ero vivace (almeno così dicono) e tutti mi conoscevano e quando qualcuno chiedeva “Ma chi è quella bambina?” rispondevano “Xe la fia della radio!”
D: Ma ti lasciavano entrare negli studi?
D: Sì, entravo dappertutto e mi chiamavano quando il copione richiedeva la voce di un bambino.
D: A te piaceva, non ti vergognavi?
R: No, mi divertivo, casomai avevo paura di non far sfigurare gli attori che erano bravissimi.
D: Da piccola avevi tanti animali. Ma come facevate a tenerli nel grande palazzo della Radio?
R: Mi sono sempre piaciuti gli animali e ho sempre vivo il ricordo di Ras, un cane poliziotto tutto nero che passava le notti in portineria a guardia della casa. Era cattivissimo, odiava i gatti e qualche volta anche le persone. Ma io lo amavo, si lasciava pulire solo da me i denti con lo spazzolino. Avevamo gatti, qualche gallinella, pappagalli e, siccome l’edificio era vecchio, trovavano alloggio anche i topolini.
D: Nonna vorrei proprio vedere dove abitavi! Si può?
R: Ora lo spazio è in uso alle redazioni della televisione e nell’anno 1986 ci siamo trasferiti ma ugualmente ho visto nascere TV Capodistria e devo dirti che ho letto il primo telegiornale.
D:Eri così brava?
R: No, a dire il vero doveva esserci una mia amica, Maria Pfeifer, molto più capace, ma nello stesso giorno ci fu il funerale di suo padre e io la sostituii all’ultimo momento… Mi misero una parrucca perché i miei capelli erano lunghi e lisci e sembrava una pettinatura troppo sbarazzina. Poi mi dissero: “guarda sempre questa luce rossa” e così con questa “seria” preparazione siamo partiti.
D:Che paura dovevi avere! E poi com’è andata?
R:Bene! Fu un grande avvenimento e tutti stavano con il fiato sospeso; alla fine, dalla felicità abbiamo fatto una bella festa.
D: Sei ancora ritornata davanti alle telecamere e ti hanno sempre messo la parrucca?
R: No, piano piano i tempi sono cambiati e i capelli sono diventati più corti. Ho ancora letto parecchi telegiornali, ma poi l’arrivo di un bebè mi ha allontanato dal tavolo perché il pancino cresceva.
D: E poi non sei più tornata alla tv?
R: Sì, mi divertivo doppiando i personaggi dei cartoni animati. Mi sentivo come una piccola briciola tra splendidi attori. Avevo solo da imparare da loro. La nostra vita era strettamente legata a quella televisiva. Per esempio, se durante un telegiornale nella nostra cucina si batteva la carne, un tecnico correva immediatamente ad avvisarci poiché il rumore veniva sentito nello studio. Dal mio appartamento alla TV avevo da aprire una finestra, fare qualche scalino ed ero pronta per il trucco e per la diretta.
D: Credo che tu abbia conosciuto tanta gente, prima abitando e poi lavorando sia alla radio che la TV.
R: Sì, persone molto interessanti e capaci, bellissime amicizie; ma ora in pensione ho altri amori: i miei nipoti… 15 nipoti! Evviva!!!
D: Mi sembra di capire che ti piaceva tanto il tuo lavoro…
R: Molto, il microfono era l’amico più fedele… Non mi tradiva, non mi rispondeva, mi dava sempre ragione, mi coccolava, mi ascoltava e basta… Meglio di così!
Ringrazio mia nonna per il suo racconto e ringraziamo anche tutti coloro che dedicheranno il loro tempo a questa lettura. Concludiamo con una poesia scritta da noi due.
Le parole
Parlare è bello
quando l’amico ti ascolta.
Se le parole
volano al vento
e non vengono prese
sono parole sprecate.
Parla, parla, parla
e ascolta
con tutto il tuo cuore.
E poi
sorridi e ridi
tanto..
ML HISTRIA – Elementari – Lavori di gruppo – Categoria “ a “, sottocategoria “ 2 “:
I pici della prima classe di Gallesano hanno riportato le ricette dei dolci tradizionali, da loro preparati e cucinati. I nonni hanno dato i voti e hanno vinto le “ fritole.” Splendide le fotografie. Bravi tutti (bambini, nonni e maestre) e speriamo di aver modo di assaggiarli
I nostri noni ne conta
Son andado a Pola trovar la sorela de mia nona Lia. Ela la se ciama Livia Bonita. La xe nata a casa el 28. 12. 1942 ale Barache. Gavemo comincià a parlar de come che iera una volta e la me ga contà de la guera. In uno dei bombardamenti i ga perso la casa, ma per fortuna che i iera in una casa ciamada Mariotica dove de giorno, fin che i omi lavorava, le mame stava con i fioi per eser piu vicin ai rifugi. Per un periodo ghe ga tocà viver la anche de note, fin che no i ga trovà casa ale Palazzine, dove xe nata sua sorela, cioè mia nona. La me ga anche dito che la sua mama a casa la gaveva sempre una borsa con la roba pronta per poder scampar con ela in rifugio pena che i sentiva le sirene. Ivese suo fradel, che in quel tempo gaveva 8 anni, e el se xa giogava fora con i amici, el saveva che quando sonava le sirene el gaveva de corer subito in rifugio e no de andar a casa a cercarle.
Ala fine dela guera, nel '46, ga comincià l'esodo. La dixi che in te la strada dove la viveva e la se giogava, la vedeva pasar tantisima gente che portava con se' tutta la roba in valige e careti. I andava verso el molo ˝Carbon˝, dove iera atracada la nave Toscana che portava la gente in Italia. Ela la se ricorda che la ghe tasava l'anima ai sui genitori perché la voleva andar anche ela. Un giorno sua mama se ga stufà, la ghe ga prontà el fazoleto con la sua roba dentro, la la ga acompagnada xo in strada e la ghe ga dito: ˝Va!˝. Ela, convinta de se', con el fazoleto in man, la ga fato un per de pasi, la se ga fermà, la ga molà el fazoleto e la ga comincià a pianzer. Sua mama che intanto se gaveva sconto la xe andada a ciorla.
La se ricorda che de tuti quei fioi con i quali la se giogava in corte i iera restati solo in pochi. Un giorno, giogandose con uno dei pochi che iera restadi, el picio gaveva trovado un toco de fero e lo ga cominciado a bater. El voleva forsi romperlo e el gaveva mandado mia zia a cior un martel. In quel momento mentre ela la iera in casa la ga sentì un esplosion. La xe corsa fora e la ga visto tanta gente portar via el picio involtisado in una coverta. No la se ricorda niente altro del episodio, nè come se ciamava el ragaso, nè come xe andado a finir.
Un altra roba che la me ga contado xe l'espolsion de Vargarola acaduda el 18 agosto del '46, un giorno prima che mia nona nasesi. L'esplosion de Vargarola xe stada una tragedia nela quale ga perso la vita tante persone e famiglie intiere. Lori i podeva eser la quel giorno al bagno, se no iera per sua mama che gaveva de partorir e perciò i iera restadi a casa. Questo avenimento ga fato partir via, sai più velocemente, tanti polesani.
La famiglia de mio bisnono iera formada de la mama, quatro fradei e una sorela. Tuti ga deciso de partir trane i miei bisnoni con mia zia, zio e mia nona, che anche se i gavesi desiderado partir con lori, i xe restadi perché i se sentiva in dover de aiutar sua mama e suo fradel non vedente.
Quando la ga cominciado andar a scuola, a Pola iera tre scuole italiane; nei rioni de Veruda, Siana e una in centro, Dante Alighieri, dove la andava ela. In quei ani le scuole italiane iera ancora piene de fioi, infati quel ano iera tre prime clasi divise in masci, femine e una mista. In quinta clase, quando oramai de italiani ghe ne iera restadi pochi i ga unido le tre scuole in una e in più quei con i cognomi che podeva eser croatizadi i li ga mandadi in scuola croata,.
Insoma go capì che i ani dopo la guera no iera facili perché a Pola oltre ala grande povertà e mancanza de viveri, iera restadi sai pochi italiani che purtropo se ga dovù adatar al novo regime Jugoslavo.
“Bisogna dedicare tempo per ascoltare la vita degli altri per trasformarli da ignoti senza volto a individui.”
Ho sempre creduto che l’apparenza possa ingannarci … e non poco … i pregiudizi li odiavo da sempre, ma quella volta non riuscii ad evitarli … mi vennero incontro.
Era quel signore anziano che si era trasferito in città da poco tempo. A prima vista non mi ero fatta nessuna idea, ma poi col tempo capii che vivere vicino a lui sarebbe diventato ben presto uno strazio. Non faceva altro che brontolare quando gli passavo vicino per le scale, ogni tanto urlava agli altri vicini a causa del cane che ululava … era molto irascibile e quando gli veniva rivolta la parola o semplicemente un buongiorno, lui a malapena alzava lo sguardo ma nella maggior parte dei casi poi girava gli occhi.
Ogni volta che suonavo lui bussava alla porta e mi ordinava di smettere. Diceva che la musica gli dava fastidio. Un po’ di tempo dopo lui aveva già litigato con quasi tutto il condominio. Gli davano fastidio i bambini che correvano per le scale, i giovani innamorati che si salutavano la sera davanti alla porta di casa, i musicisti che portavano gli strumenti al pianterreno, le grandi famiglie, le persone che canticchiavano o fischiettavano una melodia della quale non sapevano l’origine. Io cercavo solamente di tenermi alla larga. Mi davano fastidio questo genere di persone. Quelle persone che non fanno altro che lamentarsi e alle quali ogni piccolezza riesce a dare fastidio. Il signore del quale non conoscevo nemmeno il nome, aveva capelli bianchi e non l’avevo mai visto calmo e sereno. Portava un cappotto lungo e nero, in testa un cappello … era sempre elegante, anche se le sue parole non si addicevano a come si presentava. In piedi scarpe di pelle nera altrettanto eleganti.
Era diventato impossibile vivere in quel condominio siccome tutti ormai avevano litigato con tutti, a causa del nuovo arrivato e così avevano scelto me per portare un regalo di pace al signore che viveva proprio accanto, ma che non conoscevo affatto.
A essere sincera questa cosa non mi andava a genio per niente … e poi il fatto che non avevo litigato mai con lui era solo perché lo evitavo il più possibile, ma siccome anche io ero venuta a vivere lì da poco non volevo crearmi inimicizie per un motivo così banale, perciò presi quel regalo e mi diressi verso quella porta alla quale ormai tutti temevano di bussare.
Toc! Toc! Toc!
Sembrava che non ci fosse nessuno in casa…perfetto ora avrei dovuto rifare tutto il processo di preparazione psicologica per un altro giorno…ma proprio nel momento quando mi girai per andarmene sentii un fastidioso scricchiolio della porta. -Cosa vuoi? - mi chiese con una voce profonda ma un po’ gracidante, dagli anni suppongo …
-Sono venuta per darle questo … - dissi cercando di fingere il più sincero sorriso possibile … lui invece non si sforzò. Fece una smorfia e mi chiuse la porta in faccia… Che caratteraccio, pensai. Un paio di secondi dopo la porta si riaprì e lui disse: - Non cercate di corrompermi ancora una volta! Non ci casco più! – e sbattè la porta
Me ne andai ma non ero stupita da quella sua reazione. Dovevo suonare e esercitarmi per il concerto quella sera…iniziai a suonare quando qualcuno bussò alla porta.
-Se già vuoi suonare fallo bene…non senti che sei fuori tempo…almeno cerca di tenere il passo quando fai l’accelerando. – era il vecchio.
-Chi è lei per dirmi come io debba suonare? Se ne vada a dare fastidio a qualcuno che davvero non sa fare il suo mestiere e mi lasci in pace. – lui era furioso…ma lo ero anch’io. Ora ero io quella che chiudeva la porta in faccia. Chi si credeva di essere?
La sera andai al concerto e lo trovai lì che discuteva con l’organizzatore. Li osservai per un po’ e poi me ne andai. La mattina dopo mentre mi preparavo per andare a lezione sentii l'aria “Va pensiero” dall'opera Nabucco di Giuseppe Verdi...cavolo...veniva dall'appartamento del vecchio. Interessante...me ne andai a lezione...si stava organizzando un altro concerto, ma riguardava solo i cantanti lirici. Doveva cantare il mio migliore amico, perciò decisi di andarci. Al teatro dell'opera rividi il vecchietto del condominio...il suo biglietto purtroppo diceva Sedile 9...quello vicino al mio.
Lui fece finta di niente e non mi salutò nemmeno. Si sedette e contemplò il programma. Sembrava soddisfatto del contenuto. Era strano il fatto che quell'uomo frequentasse questi posti...volevo sapere come mai li frequentava e sospettavo che infondo lui avesse qualcosa a che fare con la musica...
Finito il concerto lui mi ignorò di nuovo ma questa volta lo fermai e gli chiesi cosa ci faceva lì.- Non credo che questo sia affar tuo...- disse chiaramente innervosito. -Invece lo è... questi sono i concerti della scuola che frequento.- lui girò gli occhi. -Sono venuto a sentire un mio ex alunno e ora me ne vado.- disse girandomi le spalle.
Il giorno dopo bussai alla sua porta. Lui la aprì e sbuffò. -Cosa vuoi ancora?- mi chiese. -Voglio conoscerla siccome lei è l'unico musicista oltre a me di questo condominio. Sembrava davvero poco disposto a parlare, ma poi mi guardò negli occhi come per cercare di trovare qualche briciolo di fregatura...ma siccome ero sincera non ci riuscì. Mi fece entrare. Nel soggiorno era pieno di diplomi appesi al muro, sul tavolo c’erano scatoloni pieni di carta, in mezzo al soggiorno un pianoforte chiuso col lucchetto. Tante foto sui comodini e moltissimi souvenir.
Mi fece segno di sedermi al tavolo, mentre lui preparava il caffè. Io mi guardavo intorno e mi stupivo sempre di più. Non sapevo cosa dire. Non immaginavo che in questo appartamento avrei trovato così tanta vita. Presto il caffè mi venne servito in una piccola tazzina di porcellana. Aveva un odore delizioso. Anche il signore si sedette e guardò con sguardo scettico la sua tazzina e si rialzò per poi tornare con biscotti viennesi.
-Lo sai mi ricordano tanti bei momenti della mia gioventù…- mi disse con tono nostalgico.
-Come mai che ha deciso di trasferirsi proprio qui? – gli chiesi. Lui fissò la finestra e disse che c’erano troppi motivi del perché lui si trovi qui e troppo poco tempo perché lo vada a raccontare a me. Non volevo lasciar stare… improvvisamente mi venne una voglia matta di capire il perché del suo comportamento. -Per favore…era giusto per fare conversazione…-
-La mia vita è stata molto complessa… Mi chiamo Riccardo e non mi è mai piaciuto vivere in città…però a causa di molti errori che ho fatto nella vita, ora mi ritrovo dove meno voglio stare, in un condominio, all’ultimo piano, vicino ad appartamenti pieni zeppi di giovani tanto per farti capire l’ironia della sorte. Prima o poi il mondo ti si rivolta contro. Ho 80 anni e non mi aspetto che tu mi capisca, ma non sono sempre stato vecchio ecco tutto. –
- E quando era giovane cosa faceva? Era un musicista? – gli chiesi siccome quel pianoforte e tutti quei diplomi mi avevano incuriosito molto.
-Vivevo per la musica. Era tutto ciò che mi interessava all’epoca. Mi ricordo ancora quel briciolo di ansia misto all’adrenalina che provavo ogni volta prima di salire sul palco. Io vivevo per questo. Sono un tenore e prima di diventarlo ero un pianista. Agli inizi mi ricordo che mio padre era molto contrario alla mia educazione musicale…mi aveva detto che non avrei ottenuto niente dalla vita in questo modo. Ma la sai una cosa? Non mi importava. Era bellissimo suonare quelle melodie senza tempo, quei concerti in sale piene zeppe di gente che applaudiva come se non ci fosse un domani…io ne ero innamorato. Ora sono solo un vecchio antipatico a tutti ma la mia vita era ben diversa.- bevve un sorso di caffè e sbuffò.
-Non ho voglia di parlarne ...bevi il tuo caffè e poi puoi anche andare...-
-Senta...come mai non ha continuato col pianoforte? Io per esempio non ho mai cercato di cambiare il mio strumento?-
-Sei davvero insistente...voi giovani di oggi siete come delle pulci. Siete più testardi dei muli...
-Ogni giorno avevo molte ore di lezione di pianoforte…ero solo un adolescente ma sapevo che quella era l’unica via per riuscire. Era frustrante a volte…c’erano dei passaggi così difficili per i quali servivano mesi affinchè li si possa ascoltare senza nessun errore. Molti giorni non uscivo di casa e suonavo, soprattutto se era in vista di un concerto in qualche teatro importate…ero bravo…ma con il pianoforte non feci mai molta strada.
Le cose per me cambiarono quando canticchiai l’aria di Figaro…così… per scherzo…e allora il corista mi chiamò dal preside e mi fece cantare. Non ci capivo più niente…pensavo che la cosa sarebbe finita male siccome un anno fa mi avevano etichettato come il più stonato della scuola…mi spiegarono poi che questo succedeva quando la voce mutava.
Iniziarono a darmi lezioni di canto. Era dura…all’inizio non ne avevo voglia, ma poi quando capii come dovevo respirare e proteggere la mia voce e soprattutto come stare in silenzio perché era questa la cosa più difficile da fare, la storia del canto iniziò a piacermi.
Iniziarono i concerti, prima piccoli e poi sempre più grandi come quelli alla Scala…e poi sempre più lontani da casa. Mia madre piangeva ogni volta che me ne andavo per un periodo più lungo e gli anni passavano ma io non mi stancavo mai degli applausi, dell’armonia, dei fiori che mi portavano, del successo. Perseguivo il successo e anche se molti mi avevano consigliato di prendermi una pausa io non volevo farlo…
Un po’ di tempo dopo conobbi una bellissima pianista. Lei era davvero brava a suonare ma il successo non significava niente per lei. Me ne innamorai davvero tanto. Ero innamorato del
suo carattere e della sua personalità forte. Mi ero innamorato della sua musica e le avevo proposto di lavorare con me. Dietro al mio e al suo successo c’erano moltissimi anni di duro lavoro…tanta pazienza e mille camicie sudate, ma ne valeva la pena. I migliori direttori d’orchestra al mondo volevano lavorare con noi. Tutto sembrava perfetto, io e Cecilia ci sposammo, ma io non volevo niente di più. Con tutto il lavoro che avevo, non potevo pensare alla famiglia…lei soffriva molto a causa mia, proprio per il fatto che non eravamo mai a casa insieme e non avevamo cambiato il nostro stile di vita da quando ci eravamo conosciuti.
-Allora lei non ha mai avuto figli? - lui abbassò lo sguardò ed evitò di guardarmi negli occhi.
-Un giorno però mi disse di aspettare un bambino…e ancora oggi mi vergogno della mia reazione…lei allora prese le sue cose e se ne andò…. Avevo perso l’amore della mia vita a causa della carriera. Un paio di anni dopo decisi di richiamarla. Volevo rimediare a tutto quello che avevo fatto. Mi disse che Francesco, mio figlio, era molto ammalato. Le dissi che volevo conoscerlo e che li volevo di nuovo con me. -
-Come ha potuto essere così duro con loro?-
-Tu non mi conosci e non hai diritto di giudicarmi...sono già io un giudice troppo severo della mia vita che non ho bisogno di altri....Dopo tante discussioni al telefono lei finalmente cedette e me lo fece conoscere. Mi somigliava molto. I medici avevano detto che gli sarebbero rimasti al massimo due-tre anni di vita. Nell’istante nel quale vide il pianoforte se ne innamorò. Io non persi tempo a mostrarglielo, ma quando iniziò a cantare mi vennero le lacrime agli occhi.. Aveva una voce stupenda. Così chiara, così pulita che non potevo non chiedergli di cantare ancora per me. Lui era davvero speciale e aveva un talento innato.
Passavamo molto tempo assieme e capii quanto anche per lui la musica fosse importante. Quando stavo con lui dimenticavo tutte quelle previsioni dei medici perché lui non si lamentava mai, cantavamo sempre insieme e giocavamo spesso a pallone nel parco. Sia Cecilia che Francesco venivano ai miei concerti ed era allora che capivo che un loro abbraccio significava molto di più che un applauso…- gli vennero le lacrime agli occhi. Evitava di nuovo il mio sguardo. Io avevo il cuore in gola. Non avevo idea che avrei fatto risvegliare in lui ricordi così tristi e dolorosi. Entrambi stavamo in silenzio...non c'era motivo che continuasse. Suo figlio non c'era più.
-Da quando lui non c'è più quel pianoforte l'ho chiuso col lucchetto e non intendo riaprirlo mai. Ora voglio che tu te ne vada...ti ho dato abbastanza materiale per nuovi pettegolezzi che gironzolano su di me tra gli appartamenti del condominio. Lo sai cosa mi da più fastidio? Il fatto che pettegolano e non mi conoscono...il fatto che non sanno quanto prima ero felice...il fatto che non sanno come mi si possa sentire un musicista che sta perdendo l'udito...il fatto che non sanno niente di me...loro non sanno che ho perso la cosa che tutti al mondo cercano...ho perso l'amore...nella vita oltre al successo ho ricevuto solo dolore...e loro parlano e ridono alle mie spalle.I giovani mi chiamano vecchio senza pensare che anch'io una volta potevo correre, che anch'io ero giovane...proprio come loro. Mi giudicano perchè questa è la via più facile...forse avrei dovuto farlo anch'io...nella vita ho sempre giudicato troppo me stesso...-
Mi alzai dal tavolo. -Grazie signor Riccardo...- dissi porgendogli la mano.
-Per cosa?- chiese quasi infastidito.
-Per avermi insegnato che prima di giudicare bisogna conoscere se stessi, poi gli atri e che ogni persona ha diritto di avere una possibilità per farsi conoscere e non importa quanto sia difficile togliere i pregiudizi che tutti noi abbiamo...ogni persona ha una storia alle spalle che noi non conosciamo...ogni persona ha vizi e virtù...ogni persona prima o poi viene segnata da qualcosa e noi abbiamo il dovere di rispettare le cicatrici che porta e non giudicare prima di cogliere l'opportunità di capire.-
Oggi ho mangiato di nuovo quel buon formaggio che mi portava mio nonno. Non aveva lo stesso sapore.
Oggi ho rivisto il costumino verde floreale che mi regalò mia nonna. Non aveva lo stesso odore.
Sto guardando il cielo scuro e meschino. Non li trovo. Le mie due stelle non ci sono.
Fuori tutto dorme, sotto il grande lenzuolo nero e semplice. "stella mia!" Mi ripetevano imiei eroi. Non sono io la vera stella, lo sono loro. Adoravo !e loro storie, le conoscevo tutte.
Le amavo tutte. Anche le canzoni, con quei sorrisi stupendi poi. Adoravo le loro parole, partorite da quei sorrisi...quei. Sono diventati stelle che raccontano.
Ora sono qui per raccontare io una storia, ai miei due eroi, qui, davanti a questa finestra sbarrata, in questa notte irriverente, con questo cielo misero.
Voglio raccontare una storia semplice, per due persone semplici. Si tratta di una storia raccontata da una persona complicata. La storia di una ragazzat che guarda. Che guarda prima quell'enorme pezzo di pietra nera, che non merita niente, per poi osservare il cielo e chiedere alle due stelle più belle: "Perché?" "Perché non posso essere lì, con voi. Solo per un attimo. Fuggire da questo !nferno, per arrivare lì, dove il posto è migliore. Lo sapete anche voi che qui, da me, gli angeli sono rari."
Qui, quasi tutti hanno un atteggiamento irrisorio. Qui, la maggior parte della gente fa pena. lo, infatti, voglio bene solo a voi. Certe volte la natura è irremissibile. Ma io ho trovato un'alternativa, per arrivare in cielo, tra !e braccia che mi proteggono da pensieri, parole e ostilità umane...la musica.
Lo sapete che musica sto ascoltando in questa notte comune? Una canzone che dice che sono sola, in questa notte, senza di voi, che mi avete lasciato davanti a questa finestra, con questo mantello, con le scarpe piene di passi, la faccia piena di schiaffi, it cuore pieno di battiti e gli occhi pieni di voi...Jovanotti...l'ascolto anche con mio padre, sapete?
Quello che vorrei sapere io è...dove siete...sono sola. Mi toccherà coprirmi con il mantello che ho cucito, guardare fuori, pensare e chiedere. ; Sentite la mia musica? Quando scorro le dita sul mio pianoforte? E la mia voce? La sentite? E i miei pensieri? I segreti? Le poesie?
Ma, se avete abbandonato le stelle cosa siete e dove siete ora? Secondo me, farfalle. Leggiadre farfalle che adesso dormono, insieme. Che volano, nei momenti felici, nel mio stomaco. Sempre. Quello schifoso blocco nero non vi merita affatto. Niente merita voi. Neanche io. E io volevo solamente dire, due piccole parole, per due grandi supereroi. E per dirvi grazie, per avere mantenuto la mia promessa, quando vi chiesi di tornare. Grazie per calmarmi ogni qualvolta io abbia una crudele lacrima su! mio volto. Purtroppo, è fatto così. Ma non importa. Vi voglio bene, questo lo so. E lo sapete chi scrive queste parole. Quella ragazzina impeccabile, con gli occhi pieni di lacrime, il cuore pieno di amore, l'anima piena di tagli, lo stomaco pieno difarfalle e il sorriso pieno divoi. Vivoglio bene. Promesso. L'ho scritto in queste poche e povere parole.
!o, amante di due stelle che sorride davanti ad un cielo scuro.
3° PREMIO NON ASSEGNATO
Il nonno è una persona molto importante per noi, nipoti. È una persona che è sempre vicino a noi, vicino al nostro cuore.
Mio nonno ora è vecchio. Gli anni l'hanno raggiunto e lui è indifeso, perché la vita è dura. La felicità non era proprio il suo compagno fedele. Non conosceva l'amore perché non l'ha mai sentito. Forse perché è rimasto troppo presto senza i suoi genitori.
Anche se non conosceva l'amore, voleva darlo. Non mi parlava della cultura o delle tradizioni, ma delle lezioni che ci dà la vita e delle cose che dovrò affrontare nella vita. Mi diceva sempre di essere una persona brava e di non dire le bugie, di non rubare e di credere sempre in Dio, perché ''Lui è il miglior amico''. Amava leggere i libri perché gli avevavano insegnato molto e cercava sempre di passare queste conoscenze a me. Qualche volta si arrabbiava con me, ma vedevo sempre dopo i suoi occhi pieni di lacrime. Sì, sapeva anche piangere qualche volta. Spesso lo faceva al pensiero dei suoi genitori. Mi diceva '' ora non ci sono più''. Tutta la sua vita voleva sentire l'amore della sua madre. E il padre era rigido.
Il nonno mi cantava spesso. Non mi ricordo delle parole di queste canzoni, solo un verso mi è rimasto nella mente. Il verso diceva: '' Il venti marzo 1960 quando sono entrato nell'esercito ho lasciato i genitori che piangevano alle mie spalle''. Ogni volta quando lo cantava, tirava un fazzoletto e asciugava le lacrime.
Amava la pioggia. Quando era più giovane e facevamo le passeggiate insieme, lui mi raccontava le sue storie e io ascoltavo. Mi diceva: '' La vita è dura, dobbiamo lottare e non rinunciare mai. Ero povero, dormivo in una casa che non era la mia. Ma non volevo continuare a vivere così. Ho deciso di andare via, di lavorare e di lottare. Ho lavorato per trent'anni , da solo e in un paese straniero, con la gente che parlava la lingua straniera . Alla fine ce l'ho fatta e ne sono fiero. Questo paese dove adesso vivi tu, questo rappresenta il mio sforzo e il desiderio. E grazie a Dio per questo! Sii sempre felice con quello che hai e se in un momento non lo sei, devi pensare che c'è sempre del peggio. Aiuta agli altri e da' sempre da mangiare a quelli che hanno fame. Un giorno tutto passerà, anche noi, e non importerà come ti vestivi o se avevi soldi. È questo che importa'' .
Adoravo le sue storie che interrompeva ogni tanto con un sospiro profondo.
Vorrei vivere di nuovo quelle giornate. Io e lui passeggiando o sedendo sul balcone. Posso ancora sentire il suono della silenziosa pioggia primaverile. Qualcuno mi potrebbe dire: '' E perché non lo fate di nuovo?'' Eh, magari. È malato. Non mi riconosce più. Non sa dov'è né con chi. È rimasta solo la sua forte volontà per vivere. Vuole alzarsi, ma poi capisce che non può farlo. E sorride. Perché questa è la vita. Siamo venuti indifesi e andremo via indifesi. Forse lui non sa chi sono io, ma io lo riconosco e lo capisco. E ricorderò sempre le parole di mio nonno.
''Il mese di agosto, 1942'' . Così mia nonna inizia la storia. Era il momento dei grandi eventi mondiali. La Seconda Guerra Mondiale spaventava. La gente era più sicura nelle loro case.
La campagna di mia nonna era grande. Era lontano dalla città e la notizia della guerra e del nemico che stava per arrivare è arrivata lentamente. I contadini vivevano come se niente succedesse intorno a loro. Un giorno, invece, hanno sentito gli spari in lontananza. Hanno appena mietuto il grano e si preparavano per l'inverno. Tutto sembrava lo stesso, ma non era così. La paura e l'incertezza sono entrati nelle loro case.
Era la notte. Quattro bambini, tra cui anche mia nonna, stavano per dormire sui materassi riempiti di foglie di granoturco. Uno accanto all'altro, come le sardine, scherzavano. La madre ha appena lavato il pavimento della stanza e si stava preparando per dormire. Era incinta. Stava per spegnere la lanterna quando ha sentito qualcuno battere alla porta. Ha sentito la voce che diceva che dovevano vestirsi più presto possibile e scappare, perché il nemico stava arrivando.
I fratelli di mia nonna si sono alzati presto e hanno accompagnato la madre. Lei, spaventata, ha preso una figlia per la mano e i fratellini la tenevano per la gonna. Loro e la madre portavano a turno la più piccola bambina. Camminavano per ore. Volevano arrivare in un altro paesino. In un momento la donna ha capito che non ce la facevano. Non avevano più la forza per portare la bambina in braccio. Cercando di salvare la famiglia, disperata, ha preso una decisione dura. Ha lasciato piangere la bambina per strada ed ha continuato a camminare con gli altri figli. Dopo due giorni, quando tutti erano sicuri che mia nonna era morta di fame o uccisa, è arrivata sua zia con la bambina sana e salva! La zia raccontava che, passando per la strada di montagna e fuggendo anche lei dal nemico, aveva visto la bambina. L'aveva presa e l'aveva portata al sicuro. La madre della bambina era felicissima e sentiva anche la colpa perché non aveva preso la decisione migliore. La nonna viveva per ancora settant'anni.
La nonna aveva una vita felice. Non si parlava molto dei giorni che aveva passato da sola, e non si ne sapeva molto, ma non ha giudicato mai sua madre e stava con lei nei momenti più difficiili. La vita è strana. Anche le vie del Signore.
La violenza delle immagini presentate dai film e dalla televisione è una componente sempre più frequente e insistente degli spettacoli, dei documentari, dell'informazione quotidiana.Conduci qualche riflessione su questo argomento
Era una giornata impegnativa a scuola e non vedevo l'ora di tornare a casa. Ho acceso la tv. La notizia più recente parlava di un ragazzo che aveva sparato ai suoi compagni di scuola. Il prossimo canale, un attacco teroristico in Turchia. Ho spento la tv e ho iniziato a riffletterci. Perché siamo circondati solo dalle cose cattive? Perché dobbiamo pensare sempre negativamente? L'obbiettivo di ogni videogame che giochiamo è quello di sparare e di uccidere quante più persone possibile. La violenza non porta mai pace e non risolve nessun problema. Allora, perché è così popolare? La gente come se non vedesse l'ora di sentire qualcosa di negativo o triste e poi, con le braccia incrociate e sui suoi divani comodi, discutono e fanno commenti. Non si ferma la violenza in questo modo! La cosa più triste è che questi spettacoli li guardino i bambini. Passano la maggior parte della loro infanzia fissati allo schermo del televisore, del computer o del cellulare. Così crescono e diventano loro gli esempi cattivi e tristi della loro infanzia. E i bambini sono il futuro del nostro mondo.
Perché non si trasmettono più frequentemente i film belli e romantici, perché la gente non guarda più i documentari o i programmi sulla natura? Perché non cambiamo noi il modo in cui cresciamo?Si può imparare molto dagli errori degli altri. Si dice, anche, ''sbagliando si impara''. Ma come imparare a dire ''basta''? Il problema è che questi sbagli si moltiplichino e diventa sempre più difficile correggerli.
Ho acceso di nuova la tv, ma questa volta non sentivo le dicharazioni vuote dei politici, i telegiornali, i film pessimi e le scene violente. Trovo la musica calma e mi rilasso. Sto pensando. Sperando che le immagini belle vinceranno .
“Bisogna dedicare tempo per ascoltare la vita degli altri per trasformarli da ignoti senza volto a individui”
Conoscere una persona in fondo, ogni pensiero, ogni paura, tutto ciò che la forma e la crea, è impossibile. Possiamo solo creare un'immagine apparente di qualcuno, basandosi solo su ciò che vediamo, o peggio, sulla base di voci o pregiudizi. Questa immagine è in realtà un riflesso di noi stessi, non una figura bruciante e tangibile. Condannare un'altra persona non la definisce, definisce noi stessi. La vita crea e plasma le persone. Ogni goccia, ogni colpo che sentiamo sulla nostra pelle, costruisce la nostra personalità. Alcune delle nostre ferite stanno guarendo, ci rendono più forti, alcune non possono mai. Allora siamo come un animale ferito che attacca tutto ciò che la circonda. Siamo arrabbiati, siamo spaventati. Le persone non cercano di vedere sotto questa maschera di rabbia, né di capirne la causa, è solo un meccanismo difensivo, uno scudo che ci tiene lontano dai nuovi problemi. Se guardassimo un po 'più in profondità sotto questo scudo, vedremmo la ricchezza che una persona porta in sé, una vita che accade una volta, e mai più. Non ci sono cose insensibili in questa vita, ogni dettaglio lo separa dagli altri, gli conferisce un posto speciale nel mondo, nella storia. . Accecati e inconsci, non proviamo a vedere quest'uomo, il mosaico della sua personalità. E allora , ci si dimostra, quanto siamo prepotenti ed egoisti. “Se giudichi le persone non hai il tempo di amarle”, parlò madre Teresa. Di questa verità,lei ha scosso tutta la gente. A tutti noi, almeno una volta nella vita,ci è capitato di etichettare qualcuno. Abbiamo condannato, ma non abbiamo provato a conoscerlo meglio, a scoprire cosa si nasconde dentro quella persone e provare di capirla. è più facile condannare, lasciarsi guidare dai desideri primitivi di distruggere gli altri, per farci sentire meglio. Questo chiudendo consapevolmente i nostri occhi e il cuore mantiene la nostra vanità. Solo quando ci liberiamo completamente da quella giudizio interiore e dai pregiudizi che governano i nostri pensieri, possiamo comprendere pienamente una persona . E solo allora, lo amiamo veramente: le sue ferite, quello che indossa, che nasconde, che ha più valore, che tiene in sé. Sono appena entrato nella vita reale ora con i miei diciotto anni, scoprendo quanto, credevo fosse una pura bugia, una fiaba che i genitori hanno inventato per proteggermi dalla crudeltà che persone - le bestie mostrano ogni giorno. Ho detto, ho appena fatto un passo, ma questo non significa che non ho visto abbastanza. Ho capito che il dolore più profondo è nascosto sotto il sorriso più bello , e che le persone più
fredde hanno un cuore caldo ma ferito. Le persone indossano maschere, nascondendo la verità vera da questo mondo rude, insensibile per il dolore e la sofferenza degli altri. Ho capito che c'è un ragazzo che si droga, non perché è un fiasco, come gli altri lo chiamano, ma perché sta cercando di fuggire dalla sua vita. La vita in cui suo padre è un molestatore e un alcolizzato, e dove viene distrutto dalla solitudine, dal dolore e dalla paura. Ho capito che una ragazza che aveva perso la sensibilità per la sfortuna degli altri, non era nata senza speranza, già soffriva di tali perdite, che il suo cuore era completamente indurito, indifferente alla felicità e alla disgrazia. “Non giudichi”, mamma me l'ha detto. “Non giudichi, perché non lo sai”. E infatti, aveva ragione. Cos’ altro, oltre l'ignoranza, costrinse le persone a condannare i neri e oggi i musulmani. La condanna si è trasformata in odio. Cos'altro, tranne l'idea di averli conosciuti,conoscendo la loro fede o il colore della pelle. Accecati dalla nostra saggezza, dal nostro potere di ragionare, commettiamo peccati. Chi siamo noi per giudicare? Chi ci dà il diritto di stare di fronte alla porta del paradiso e scegliere chi potrà entrare e a chi è vietato l’ingresso ? Chi ci permette di giudicare gli altri non essendo mai nella loro pelle? Non siamo stati noi a fare le loro battaglie e non siamo stati noi quelli che si svegliavano in piena note tormentati dai pensieri ? Quando finalmente capiremo che questo equivoco, il nostro egocentrismo crea differenze tra le persone, distanze irraggiungibile che dividono il mondo? E saremo mai in grado di superarle?
L'opera che mi affascina maggiormente nella letteratura italiana e le ragioni della mia preferenza
“Dietro una lingua ci sta una letteratura, e dietro una letteratura c’è un gusto,una civiltà...”-la famosa citazione di Luigi Rosso, critico letterario italiano, mi ha ispirato a scrivere questo tema. Ho sempre amato la possibilità che offre la letteratura:la possibilità di creare un mondo diverso del nostro e allo stesso tempo ,renderci coscienti dei gravi problemi nella nostra vita . In questo modo,nasce la nuova generazione di gente-realistica,con un’opinione critica,che non ha pura dei cambiamenti, che combatte per la sua felicità e vive per i suoi sogni. Rispettando tutto questo, era logico di scegliere la persona che è un rappresentante adeguato per me : famosissimo Dante Alighieri e la sua “Divina Commedia”.
Non vorrei scrivere la sua biografia completa,infatti preferisco inidicare i dettagli che spiegano la personalità di Dante.Nato a Firenze nel 1265, trascorse la sua infanzia imparando molto.Dopo partecipò come cavalire in battaglia contra gli Aretiani, nel 1299.Sposò Gemma Donati,ma la donna che gli aiutò a incontrare la luce nel suo destino fu la nota Beatrice Portinari, che appare nella“Divina Commedia”. Dante apprezzò la pace e la libertà, desiderando di migliorare la vita di Firenze.Sfortunatamente , i suoi desideri lo portarono all’esilio.Lui ebbe l’opportunità di ricevere amnistica , ma mai la accetò.Dante visse la sua vita lontano dalla sua casa, e alla fine morì a Ravenna nel 1321. La mia conclusione su lui è che fu un rivoluzionario , uno scrittore che vide la vita nella sua peggiore edizione.Questo gli permise di investigare l’esistenza dell’uomo che perde I suoi punti di forza ,che non crede nell’amore,tenerezza e rispetto. Dante ci lascia l’opera “Divina Commedia”che rappresenta la sua visione dell’altro mondo. La prima volta che ho cominciato a leggerlo,non ho capito il fascino di questo capolavoro. Adesso, con i miei diciotto anni,osservo le cose in un’altra maniera . Posso dire con orgoglio che sono un grande ammirattore della“Divina Commedia”e ci sono tante ragioni per amarla : la prima è l’ universalità-la storia parla di tutte le società e di tutti I tempi.Mi piace particolarmente come lo scrittore ci mostra la realtà con le creature meravigliose e molti diversi personaggi.Per comprendere questo capolavoro non è neccessario essere una persona erudita, perché Dante scrisse nella lingua del popolo..Sono più importanti la sensibiltà e la maturità del lettore. Penso che questo cambio ci dia l’opportunità di conoscere meglio la cultura italiana. Grazie ad Alighieri,ho scoperto l’essenza dell’anima dell’uomo,che non conoscevo prima della “Divina Commedia”.L’ opera è composta da tre cantiche:L’inferno,il Pulgatorio e il
Paradiso.Si basa sul simbolo del numero tre(simbolo di Santa Trinità)e il perfetto numero dieci.La parte su cui mi concentrerò e l’Inferno, perché lo considero come il culmine del poema. Il personaggio principale è lo stesso scittore ,anche lui un peccatore.La sua guida è noto poeta Virgilio(simbolo di sagezza),che lo aiuta a viaggiare tra nove cerchi infernali. Durante il viaggio,Dante incontra i personaggi che sono puniti per diverse cose:per scegliere la passione(Francesca e Paolo),per essere contro la natura(L’insegnante di Dante,Brunetto Latini),per fare tante malizie(papa e cardinali)ecc.Ogni cerchio è più spaventoso di quello precedente.Sono rimasta colpita dalle descrizoni della tensione ,e dei personaggi che possiamo riconoscere nella vita di oggi.Sempre esiste un amante,un avaro,un governo che non pensa al suo popolo... È interessante che l’autore non risparmia gli eroi di Antica com’è Odysseus,facendomi chiedere se c’è una persona che è innocente.La scena che mi ricordo come la più emozionante è quella con il conte Ugolino che aveva tradito Pisa. L’arcivescovo Ruggero chiude il conte e la sua famiglia in un torre.Tutti muiono di fame e come punizione, Ugolino constantemente mangia la testa di Ruggero nell’Inferno. La tragedia descritta è completata con i forti versi dei figli:
"Padre, assai ci fia men doglia/ se tu mangi di noi: tu ne vestisti/ queste misere carni, e tu le spoglia".
Qui è mostrato il messaggio morale che mi è piacciuto molto: Se fai il male, le persone che ami, saranno anche addolorate per la colpa tua. Il poema finisce felicemente,l’autore entra nel Paradiso e parla con la Vergine Maria.
Il principale motivo per cui ho deciso di scrivere della “Divina Commedia”, è l’esistenza della giustizia ,che non riesco a trovare nel nostro mondo.Dante,come padre della letteratura italiana, insegna ai giovani che il vero modello della vita è quello con la coscienza pura.La mia opinione è che la società moderna ha dimenticato tutti i valori morali e che l’uomo si perde facilmente nella foresta di peccati. Tutto è già parte dell’Inferno , ma solo è questione di tempo quando gli occhi si apriranno.
Bisogna dedicare tempo per ascoltare la vita degli altri per trasformarli da ignoti senza volto a individui" (Jenny Erpenbeck: autrice tedesca). Rifletti sulla citazione del titolo e spiega quanto sia fondamentale conoscere la vita di una persona prima di esprimere un giudizio.
Prima di condannare una persona, i sui motivi e le azioni, dobbiamo conoscere la sua vita. Ognuno porta il suo peso nella vita. Tutti siamo un grande vuoto senza lettere e parole, e poi scriviamo le proprie storie da soli. É vero che bisogna dedicare il tempo per sentire la vita degli altri. Hanno molto da raccontarci. Tante persone avevano l’infanzia cattiva, sono stati sacrifici di violenza e per questo diventano cattivi, irresponsabili, non seguono la via giusta. Il peggiore è che la loro anima è ferita sulla strada vitale. Prima di diventare adulto, un uomo era un bambino con gli occhi splendenti. Sognava i grandi sogni e pensava dei mondi lontani. Non dobbiamo puntare il dito verso qualcuno per le sue azioni, perché non abbiamo ragione. Quell’ uomo che si è ucciso magari ha vissuto l’esperienza cattiva, forse nessuno l’ha capito e non c’era qualche persona capace di sentirlo e parlargli. Ci sono le persone con cui condividiamo le stazioni sul percorso dal fallimento al successo, ma non sappiamo quasi nulla su di loro. Non gli chiediamo per il colore e il libro preferito, che hanno colorato la loro vita. Non sappiamo da che parte gli piace dormire e se sono contenti della loro vita. Sono gli innumerevoli casi di violenza tra coetanei che finiscono tragicamente le loro vite. Perchè la gente non ha l’empatia e la comprensione per i comportamenti degli altri? Pieni di ignoranza, siamo pronti di parlare, sospettare, giudicare. La nostra colpa è ciò che viviamo in oscurità, che siamo indifferenti agli altri. Il messaggio è di osservare il mondo in cui viviamo, di ascoltare il sussurro del nostro amico, vicino, conoscente. Solo così saremo soddisfatti della nostra vita e gli altri saranno felici.
PARLA DELLE TRADIZIONI DEL TUO PAESE
Titolo: Raccolta di poesie in dialetto istro-romanzo (rovignese)
EL BURION
El burion
In quista nuoto scura
sa sento un grando burion.
El svilgia peîci e mame
ca nu li fa altro ca sentì
li lagne da i suoi fioi.
El gato el salta cume un bico par la pagoûra
e par la rumasteîa ca el fà,
el svilgia el nuono ca el ga teîra sarmenti.
MA FRA
Caro fra,
Ti son doûto quil ca i ie',
ti son la mieîa stila ca ma cunpagna,
el mieîo grilo ca ma faviela.
Meî, i ta vuoi oûn mondo da ben,
i ma racurdarie' senpro i bai mumenti pasadi insieme.
L' INVIERNO
Quando ca ven l' invierno,
el mondo daventa bianco.
I muriedi ʃoga cun la neîo,
i sa teîra dreîo li bale e i fa i poûpi.
I cameîni i fuma cume la farata e li varda cuntenti
parchí i puorta tanta aligreîa.
L' AUTUNO
L' autuno el ʃi pien da culuri
virdo, ʃalo, ruso, culuri mai visti...
li strade li ʃi piene da foie ca
li creîca quando ca ti li pisti.
Li foie li bala cun la melodia del vento.
I arbari pian, pian, i pierdo i suovi vistiti.
LI SCARPE
Li scarpe ʃi mondo inportanti,
sensa, a nu sa va avanti.
Doûti uo' li scarpe,
i bai e i broûti,
sensa, ti puoi pasta' qualche viro,
sensa, ti ta pol pasta' i peîe.
EL SIL
El sil el ʃi grando,
cun li nuvole el bala el valzer,
el ten par man el sul
el fa baroûfa cun li scise de la piova.
El sa spiecia in mar
uramai ʃi sira,
a duman amigo mieîo.
LA MIEIA RUVEÎGNO
Ca biela la mieia Ruveîgno,
li cale strite e insastuʃe,
el mar lambastro cume li pierle bianche,
li batane sa spiecia in puorto ,
li spieta i pascaduri par ʃi cala' li ride.
Vigni a vidi la mieîa biela Ruveîgno.
I NOSTRI NONI NE CONTA-I NOSTRI NONNI CI RACCONTANO
La casa in cui abito è situata nella parte più antica della mia cittadina, un rione bello e particolare di Dignano. Le case sono ammassate le une accanto alle altre, sono costruzioni in pietra molto vecchie. Sulla facciata della casa accanto alla mia vi è incisa la data in cui è stata costruita: il 1428. Quando l’ho scoperto ne sono rimasto stupito e meravigliato: sono quasi seicento anni! Di sicuro anche la mia abitazione è così vecchia. Ho iniziato a riflettere e a pormi delle domande: “Quante generazioni vi hanno vissuto?”, “Come viveva la gente nel passato?”, “Quali erano le loro abitudini?”, “Com’era la casa seicento anni fa e quante volte ha cambiato aspetto?”
Peccato che la mia curiosità non potrà mai venir soddisfatta e che tutte queste domande rimarranno senza risposta.
All’interno della casa i miei genitori custodiscono gelosamente diversi oggetti antichi appartenuti ai miei avi. Uno di questi è particolare per il suo valore e la sua maestosa bellezza: “el comò” che da moltissimi anni abbellisce il nostro salotto. È stata la mia nonna a parlarmi spesso di questo mobile e della persona a cui era appartenuto in passato: la mia trisavola (la nonna della nonna), nata circa nel 1880:
“Quante volte che mia nona me diseva: - Nina vien sa che te daghi un stolver (caramella) o una galeta (biscoto)- e la verseva i casetini del comò. Me ricordo ben de mia nona, iera una dona picia e magra. La iera sempre vestida con un cotolo lungo e nero e de sora la gaveva una camisa. Per andar in ciesa la meteva un sialeto e per le feste la se meteva le colane lunghe, la rivava far tre giri’n torno al colo con lore e lo steso le ghe picava. La gaveva i cavei neri e la li ingrumava sempre in un cogon.
Ghe piaseva farse sempre sola de magnar: per via che ghe mancava qualche dente la se cousinava i risi con l’oio, el spasapan, la panada, la polenta tel laveʃo che la misiava tanto per via che no ghe vegna i ciuti. Quando che posavo sul tavolo la strusa de pan a la riversa la me brontolava e dovevo subito girarla perché la me diseva che el pan xe del Signor. Per questo se el pan me cascava in tera, anche un peicio tochetin, dovevo alsarlo e darghe un baʃo.
Me ricordo che la me diseva che se incontravo qualchedun che me guardava con oci bruti dovevo meti le man in scarsela e farghe i corni. Se me sentavo sul canton del tavolo la me diseva - Varda che no ti te sposi! – e la me faseva alsar. De inverno ghe piaseva sentarse su una caregha de paia vicin el fogo e contar le storie a mi e a le mie sorele.”
Chiedo alla nonna di raccontarmi le storie che le raccontava la sua nonna:
“Te conto una storia che mia nona me diseva che la iera vera:
Una volta se faseva de magnar sul fogoler, tel laveʃo. Come ogni giorno una dona de casa gaveva meso a cousinar la minestra. El fio de sta dona xe rivado a casa tardi quando che ela e suo marì iera ʃa andadi in leto. La minestra iera restada per lui tel laveʃo. In quela volta luce in casa no iera. El fio gaveva tanta fame e el se ga ciolto un cuciaro e el ga incominciado a magnar dal laveʃo. Magnando el diseva: - Mama mia, quanta carne che ga meso ogi mia mama in minestra -. Contento e sasio el xe andado a dormir. Nol gaveva rivado a magnar tuto e un po’ de minestra iera restada tel laveʃo. El giorno drio, col se ga sveiado, nei avansi de la minestra el ga visto tanti bacoli: quela iera la carne che el gaveva magnar de gusto!”
“Nona, contime ancora una storia!”
“Te conto un’altra che mia nona me ga contado tante volte:
Iera una dona che viveva in casa col marì e coi suoceri. Un giorno tuti xe andadi a mesa, solo ela iera restada a casa per far da magnar. La gaveva fame, el pranso no iera pronto e la se ga cusinado un ovo. La stava per magnarlo quando che la ga sentido rivar a casa el marì e i suoceri. In premura che no i la vedi magnar, la ga meso l’ ovo intiero in boca e la lo ga parado. L’ovo ghe xe restado in gola. La dona se ga sofigà e la xe cascada in tera. Co i la ga vista in tera i ga pensado che la iera morta e i la ga soterada. Un omo che iera al funeral ga visto che la “morta” gaveva sul dito una vera de oro. De note el xe tornado in cimitero, el ga scavado el buʃo dove che la dona iera soterada. El ga cominciado a tirar l’anel fora del dito per rubarlo ma no el rivava a tirarlo via. Per tirar con più forsa el ga meso una sua gamba sul peto de la dona. L’ovo ghe xe ʃvolà fora de boca e la dona xe rinvegnuda. L’omo, morto de paura, ga cominciado a scampar e la dona ghe coreva de drio sigando: - Spetime che vegno con ti, son viva, son viva, spetime!- La dona xe tornada a casa e la se ga meso a bater su la porta per ciò che i ghe verʃi. Xe rivada su la finestra la suocera che co la la ga vista, la ghe ga cominciado a sigar: - No, va via, va via, ti ti son morta!- La dona sigava - Verʃeme, son viva, verʃeme – La suocera ghe rispondeva – Lasine in pase, va via, te gavemo soterado -. Gnanche el marì no ghe voleva verʃi e la mandava via fin che nol ga capì che la iera viva e la ga lasada vegnir in casa.”
“Te conterò altre storie un’altra volta.”
“Va ben nona, no vedo l’ora!”
Ascolto sempre con molto interesse le storie che la nonna mi racconta. Lei ha un modo particolare di parlare: nella sua voce e nel suo sguardo si mescolano la tristezza e la nostalgia di un tempo spensierato che non esiste più. Ricorda con gioia ed allegria gli episodi felici della sua infanzia. Ciò che adoro di più del suo favellare, è che ogni volta finiamo col farci molte risate per le storie incredibili e spiritose che mi racconta.
Da qualche parte ho letto che bisogna conoscere il passato per capire e vivere il presente, perciò cercherò di fare tesoro dei racconti della nonna per conoscere il passato della mia gente e delle loro tradizioni.
"Bisogna dedicare tempo per ascoltare la vita degli altri per trasformarli da ignoti senza volto a individui" (Jenny Erpenbeck: autrice tedesca). Rifletti sulla citazione del titolo e spiega quanto sia fondamentale conoscere la vita di una persona prima di esprimere un giudizio.
L’atto del giudizio: tutti lo possiedono. Si diventa grandi critici, studiosi d’arte e filosofia, veri e propri maestri di vita quando c’è in ballo l’atto del giudicare. Si è bravi a sparlare e criticare una vita non propria credendo di aver appreso tutto il sapere del mondo; ognuno infatti pensa di essere in grado di dare un giudizio risaputo e argomentato come si deve.
Ve ne siete mai accorti? La gente è brava a criticare tutti, ma non sé stessa. Ognuno di noi pensa di essere „perfetto“ e di seguito, tutti gli altri ci devono assomigliare. Proprio perché qualcosa o qualcuno è diverso da quello che siamo noi, proprio per questo si giunge alla “critica”.
Questo non conoscere, la paura del nulla, dello sconosciuto, dell’estraneo è ciò che porta al razzismo, alla xenofobia, all’odio. Simile a un meccanismo di autodifesa, si eliminano i più deboli, i diversi. È la semplice e pura legge della natura, il più forte sopravvive. Tutti a essere precisi, seguendo delle regole non scritte, perché timorosi del fatto di essere per l'appunto giudicati, messi da parte, etichettati. Sono queste le persone che si ritrovano con una mentalità chiusa, vanno a sparlare delle faccende altrui stereotipando il prossimo. Ecco cosa non mi aggrada in tutta questa situazione: questi „cavoli“ di stereotipi.
Solo perché a quel ragazzo piace la musica punk, non significa automaticamente che sia un tossicodipendente. Solamente perché quell’uomo è un povero senza tetto, non significa che valga di meno rispetto ad milionario che veste abiti griffati. Quel signore è un musulmano?... non significa di certo che alla prima occasione si farà saltare in aria. C’è molto di più dietro all'apparenza della vita di una persona, molto di più di quel che si pensa ci sia realmente.
Di chi è la colpa allora? Di tutti gli uomini. Pura e semplice psicologia umana.
Guardando una persona che fruga in modo losco tra una pila di documenti, che si guarda attorno ossessivamente, stando attenta agli sguardi altrui, non ci viene forse il dubbio che stia cercando di rubare qualcosa? Nuovamente, un meccanismo difensivo, che ci avvisa di stare attenti a quella persona, perché si comporta fuori dal comune, perché diversa, perché anomala. Forse sta compiendo un atto che potrebbe influire negativamente sulla nostra vita.
È dunque un bene farsi dei pregiudizi, ma ciò comporta spesso ad una stima errata, soprattutto se si tratta di un individuo a noi sconosciuto. Dietro a quel presunto „punker drogato“, forse si nasconde un angelo dalle ali tarpate.
Bisogna conoscere bene l’individuo a cui si dà un giudizio per poterlo intendere obiettivamente. Non sì può consolidare una teoria sulla sua personalità basandosi unicamente su delle supposizioni, senza aver fatto delle ricerche, evidenziato e dimostrato le proprie ragioni. Non siamo più nell’era dell’“Ipse dixit” di Aristotele. La scienza si è evoluta, oramai per provare che si è nel giusto, si deve avere delle prove, prove forti. In magistratura, affinché l’avvocato possa convincere il giudice dell’innocenza del suo cliente, deve esporre fatti concreti, analizzare il caso. Immaginiamo che l’avvocato arrivi in tribunale e quando gli si chieda del perché il suo cliente dovrebbe essere scagionato, lui risponda semplicemente con un ...“È una brava persona, non ha commesso quel reato.”...nessuno lo prenderebbe mai sul serio. Servono informazioni tangibili, inviolabili, i dettagli contano.
Vi è mai capitato? Chiedervi innumerevoli volte il motivo che ha causato il comportamento anomalo di quella persona, per poi scoprire un dettaglio della sua vita con il quale si spiega tutto. Strano come un particolare, un’innocua piccola scheggia di vetro, possa causare un’emorragia così grave. Se solo un’informazione in più può cambiare il modo in cui si vede una data persona, si pensi allora cosa potrebbero farne altre mille.
Necessitiamo della conoscenza, dell’essere consapevoli di cosa accade o cosa è accaduto nella vita dell’altro. Le persone formano se stesse con le esperienze, con i fatti vissuti e l’ambiente circostante. Non sapremmo mai cosa abbia portato quel “tale” a comportarsi in una data maniera, cosa l’abbia spinto ad agire o a riflettere in quella data maniera se non conosciamo la sua vita.
Qui sta il nocciolo della situazione: il conoscere, il sapere, l’essere consapevole, richiedono tempo e fatica ed oggi, nessuno non ha né la voglia né il tempo di analizzare qualcosa in più...a guardare oltre quel velo che ci ricopre.
Alcune persone impiegheranno anni, mentre per altre ci vorranno pochi mesi per comprendere la mente umana altrui. Ci vogliono impegno e costanza per consolidare rapporti sociali di qualsiasi genere, dalla semplice amicizia, all’amore eterno. Bisogna cho ognuno di noi si impegni al massimo per poter ricevere la parte sconosciuta e più intima dell’ animo degli altri.
È fondamentale conoscere la vita di un essere umano, i fatti, i momenti vissuti e l’ambiente circostante sono fatti essenziali nella formazione del carattere di una persona. Dobbiamo conoscerli quasi alla perfezione perché sono essi che “dirigono” il suo comportamento e le sue azioni. Serve dedicare tempo e pazienza per comprenderli.
Chi siamo in realtà però per poter giudicare una vita altrui? Una vita che non ci appartiene, una vita che non sarà mai nostra: una vita umana?
Le persone dovrebbero giudicarsi di meno e capirsi di più. Sì, se solo le persone si fermassero ad ascoltare quell’attimo in più le voci degli altri, il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore e potremmo finalmente capire che solamente “NOI” siamo gli unici artefici del nostro destino.
Ho amici che parlano lingue diverse…spiega perché per te è importatnte coltivare l’italiano o il dialetto istro-veneto dei nonni
Il plurilinguismo è un fenomeno che ci tiene tutti uniti. Le persone provengono da diverse parti del mondo, come anche la mia amica che vive in Svizzera. Si chiama Suzana (la zeta ci rivela il vero paese di provenienza della sua famiglia: la Croazia) e parla tantissime lingue. Anche se svizzera di nascita, parla in croato con i genitori mescolando alcune parole in altre lingue. Parla sì il croato, ma preferisce il tedesco e il romancio (lingua usata in Svizzera). Quando viene in Croazia e parliamo l’italiano o il croato, la sua pronuncia è diversa dalla nostra. Ritengo che i genitori di Suzi abbiano svolto un ottimo lavoro perché hanno saputo mantenere vive le loro origini, la cultura, gli usi e costumi e innanzitutto la lingua che secondo me è la ricchezza maggiore!
Anch’io sembro una ragazza comune, con i miei pregi e i miei difetti, ma la verità in fondo è un’altra. Provengo da una famiglia plurilinguistica e plurinazionale. Parlo il dialetto fiumano con la mamma e tutta la sua famiglia e con le mie professoresse d’inglese e d’italiano a scuola, ma anche in occasioni informali naturalmente. Altrimenti, a scuola devo parlare in lingua. Con il papà, invece, parlo in croato alternandolo al dialetto ciacavo, come pure con il nonno paterno. Non parlo bene lo sloveno, ma lo capisco causa le mie radici slovene.
Perché per me è importante che si custodisca il dialetto fiumano? Secondo me, sono sempre meno numerose le persone che lo usano e ciò mi rattrista e ritengo che la situazione sia grave. Non capisco come qualcuno possa essere indifferente nei confronti di una tradizione così importante.
“La gente, adeso, ‘co ti parli in dialeto per strada o in botega, i te guarda in modo strano, per non dir bruto. In cità, me sento più strana mi, che lori che non sa el dialeto, che noi qua ciamemo el fiuman. So che doverio eser fiera perché mi so parlar in modo che lori non saverà mai…”
Il dialetto per me e la mia famiglia non è solo la “lingua materna”ma è un modo di vivere. Alle volte, mi immagino il mondo come un posto dove tutte le persone parlano dialetti diversi e penso che bel mondo sarebbe quello! La cosa che mi diverte più di tutte dei dialetti, sono i momenti delle baruffe, dei bisticci, gli scherzi, i proverbi e le canzoni. Ti fanno ridere e ti fanno piangere, ti fanno provare mille sentimenti e accendono diverse emozioni in un battibaleno.
Beh, adesso avrete capito tutti perché per me è importantissimo custodire il mio dialetto e parlarlo il più possibile.
Alla fine, dopo aver raccontato della mia amica e delle mie opinioni riguardanti i dialetti, mi auguro che questo temino venga letto da persone che capiranno l’importanza dei dialetti e del plurilinguismo. Spero che tocchi il cuore di qualcuno e che faccia capire anche agli altri che le lingue e i dialetti devono essere custoditi, curati con grande attenzione e tramandati. Perché lingua non significa solo parlare, ma trasmettere pensieri, idee, amore e tradizioni tramite quello che l’uomo capisce meglio: la parola.
La Rovigno del 1940 vista dagli occhi di mia nonna
A Rovigno, nel piccolo "rion" della Grisia viveva la famiglia Curto, la famiglia di mia nonna.
Mia nonna era nata nel 1940 in una casa ac tre piani poco distante dalla "Piasa Grande". La Piazza Grande era una grande corte dove tutta la "mularia" si incontrava per giocare.
Il nascondino era uno dei giochi preferiti dei bambini della Rovigno di allora. A quel tempo, ci si poteva nascondere ovunque, quindi era molto piu' difficile per il bambino "cercatore" trovare tutti i suoi coetanei. Ogni casa poteva diventare parte del gioco, ogni stalla, "lisiera", cantina oppure soffitta si trasformava in un nascondiglio perfetto per i bambini rovignesi, perche, a quel tempo, le case e i loro portoni non erano mai chiusi a chiave. Dalle soffitte i ragaszzi piu grandicelli si divertivano a fare gli spacconi correndo sui "coppi" dei tetti rincorrendosi.
Se non saltavano da un tetto all'altro, li si poteva trovare a Monte posto soprannominato anche il parco giochi. Attorno ai rami degli alberi venivano legate delle corde e in questo modo nascevano delle altalene improvvisate sulle quali i bambini si dondolavano spericolatamente. Altre volte si giocava a gurdia e ladri. I bimbi per rendere il tutto piu realistico si costruivano anche delle spade di "tola"o di legno, con le quali difendevano il proprio gruppo delle guardie se erano ladri o viceversa. Le bambine invece, erano solite ritrovarsi in piazza per giocare "el pisuco" mentre altre si divertivano con le bambole "de bieco", oppure, altre ancora, aiutavano le vecchie signore del paese andando a comprare un poco di zucchero o di pane in cambio di due "coche"
Dalla piazza Grande si diramavano moltre altre contrade come l'Arsenale, l'Andronela, il Garzotto o il Montalbano. Lungo queste vie la mattina c'era una fila di donne con lunghe "cotole" che scendevano morbide sui fianchi e con delle grandi "mastele" sopra la testa pronte ad essere riempite d'acqua potabile presa da uno dei pozzi della citta'; infatti, a quel tempo nella citta' vecchia, non c'era l'acqua corrente nelle case e neppure i gabinetti. La stessa scena si presentava quando tutte le donne si riunivano ai "giardini" per svuotare la "chibula" della giornata appena trascorsa e tra la puzza e il fetore ci si scambiavano i pettegolezzi della giornata. Qualunque avvenimento succedesse tra gli abitanti di Rovigno, rimaneva segreto soltanto per poco tempo. Infatti, anche i piu' piccini venivano presto a conoscenza di qualunque cosa, ascoltando le sorelle o i fratelli piu' grandi. In questo modo le notizie correvano veloci tra i rioni del paese.
Rovigno, poi, era piena di personaggi particolari. Come ad esempio "la Gasparita", una piccola donnetta che viveva nella casa del vecchio e che qualche volta in cerca di compagnia o di cibo, veniva a mendicare a casa della frutta o un piatto di gnocchi. "El paron del mondo" invece, era un ometto gracile e calvo che ogni volta che si presentava si levava educatamente il cappello e con un inchino pronunciava la sua frase topica: "Mi son el paron del mondo e go una grande villa".In realta' la villa del Paron del Mondo era una minuscola capanna ricoperta cion la paglia, che pero' a lui piaceva descrivere come la sua villa. Un altro personaggio era la "Gina Matta", una donetta un tantino frivola, che dopo essersi sposata con un maestro di scuola la si vedeva passeggiare per la Grisia con la sua bella pellicciona e quel suo modo di fare al quanto frufru.
A Rovigno gli abitanti si consideravano una famiglia e ognuno poteva mangiare al tavolo dell'altro.I bambini correvano da una casa casa all'altra, spiluccando il pranzo appena preparato dalla mamma, e poi tornavano a giocare per i rioni; le ragazze, dopo aver finito di lavare i panni tutte assieme, andavano a mangiare la frutta fresca raccolta in una delle tante campagne, piene di alberi da frutta e ortaggi. Una delle cose piu' belle e intime che accadevano a Rovigno erano gli incontri in piazza Grande durante le serate belle e calde d'estate. Allora ci si riuniva tutti, piccoli e grandi, giovani e vecchi, come una grande famiglia, ci si trovava a cantare canzoni tradizionali oppure a raccontare storie che sarebbero state tramandate da generazione a generazione.
Purtroppo oggigiorno questo modo di vivere e' andato completamente perduto, molte persone non abitano piu' in citta' vecchia, le case sono chiuse a chiave, i bambini non posssono piu' andare a giocare in strada, i giovani si ritrovano solo nei bar, ma una delle cose belle rimaste e' il modo di vivere tranquillo e sereno che i rovignesi condividono tutt'oggi come allora.
Quanto è stata importante nella tua formazione la presenza di figure della tua famiglia che conservano nelle loro tradizioni e nella loro quotidianità la cultura italiana. Quanto di questo imprinting è ancora vivo e lo ritrovi nel tuo percorso di vita?
Oggigiorno, noi uomini, siamo sempre più propensi a categorizzare e attribuire alle persone caratteristiche secondo noi rappresentative, con le quali collegare individui della stessa appartenenza, cultura e religione. Creiamo spesso un'immagine illusoria, falsa e poco realistica basata su ciò che sentiamo dire attorno a noi, contorcendo del tutto la verità.
Si può dire che mi riconosco in questa descrizione appartenendo alla minoranza italiana in uno stato che non è sempre stato capace di accettare le varie differenze culturali conseguenti ai vari esodi e alle guerre. Mi ricordo di quando mi raccontavano le svariate storie riguardanti la vita del mio bis bisnonno e della sua famiglia e di com’è dovuto fuggire dalla propria terra per poter vivere in pace, senza essere perseguitato dalla guerre e dalla morte. All'epoca ero ancora piccola e quindi i miei nonni tendevano ad enfatizzare l'intera faccenda rendendola adatta alle orecchie di una bambina di 6-7, anni trascurando dettagli che avrei scoperto solo più tardi. Poco tempo fa mi sono ricordata di come a quel tempo mia nonna mi diceva che mi avrebbe raccontato nuovamente tutta la storia con i dettagli che precedentemente aveva omesso.
Era una fresca giornata d'autunno e come di consueto, noi due passeggiavamo per la riva di Rovigno ammirando le case variopinte che ci circondavano e le placide batane che dondolavano sul mare che stava pian piano accogliendo il Sole in quell'abbraccio che determinava la fine della giornata, quando ad un tratto notai sulla facciata di una casa, che andava a creare con un altro edificio un piccolo passaggio secondario, l'insegna che dava il nome alla via. Rimasi stupita e mi dissi che di certo doveva essere una coincidenza: mia nonna interruppe i miei pensieri quando mi vide guardare la pietra sulla quale stava inciso il mio stesso cognome e mi fece uscire dal mio momentaneo stato di trans sorridendo. Mi fece quindi tornare in mente quella ormai antica storia riguardante un gruppo di giovani ragazzi, che costretti ad abbandonare l'Italia, trovarono rifugio (e di conseguenza pace e felicità) nella mia piccola città natia. Attendevo che ella mi raccontasse nuovamente tutto ciò che già sapevo, ma pochi attimi dopo dovetti ricredermi perché compresi che la storia che stava per seguire non era la favola che ero abituata a sentire. Parlò dell'esodo che costrinse molte famiglie ad emigrare dal proprio paese, a cambiare i propri usi e costumi adattandosi a quelli locali e soprattutto a rinunciare alla propria lingua. Nel caso dei miei predecessori capitò invece una fortuna nella sfortuna: arrivando in un paesino che in passato era entrato in contatto con conquiste e amministrazioni italiane, e quindi gli abitanti del posto hanno fatto nascere un dialetto loro, per vari aspetti simile all'italiano, ed era così possibile mantenere intatto almeno un piccolo frammento della propria cultura. Le cose però cambiarono con l'arrivo del divieto di utilizzo della lingua italiana in seguito alla guerra, quella guerra che oltre a frenare la cultura, portò alla necessità di avere combattenti e difensori della città per supportare il movimento di resistenza. Tra questi combattenti si trovava anche il mio bis bisnonno, che dopo aver formato una famiglia
morì in battaglia e fu quindi onorato con quella targa commemorativa che oggi da il nome a quel passaggio. Supponevo che la storia finisse qui, con una tragedia e senza una morale concreta, ma è ciò che avvenne dopo che mi fece apprezzare ancora di più la mia appartenenza ad una minoranza. Tornando alla storia... il mio bisnonno e suo fratello rimasero orfani di padre e si misero a mantenere ciò che era rimasto della famiglia lavorando da pescatori e acquisendo gli usi della vecchia Rovigno, passando le ore di lavoro a cantare le tradizionali bitinade e godendo dell'apparente calma. La vita monotona da pescatore ben presto stufò il fratello del mio bisnonno, portandolo alla decisione di ritornare in Italia e di rifarsi una vita: se ne andò e potè godere della neo ottenuta pace in seguito alla guerra. A Rovigno invece il mio bisnonno continuò una vita umile, facendo il pescatore e scrivendo nel suo poco tempo libero poesie sia in italiano che in rovignese (che però andarono purtroppo perse) e testimoniando al progresso dell'italiano che stava diventando pian piano sempre più importante, che avrebbe un giorno portato all'apertura di asili e scuole e avrebbe reso bilingue la nostra città e quasi del tutto sostituito il nostro dialetto. La sua storia finì lì e io parlai a malapena per il resto del giorno. Compresi quanto l'appartenenza culturale fosse importante e fui fiera di appartenervi con tutta me stessa: nelle mie vene scorreva il sangue di una persona che aveva combattuto per non essere soppressa dalla volontà e dalle leggi imposte dagli altri, una persona che non aveva rinunciato al proprio essere pur di accontentare qualcuno ed oggi, pensando a questo tema, mi pongo delle domande: perché noi giovani siamo diventati noncuranti? Perché ci vergogniamo della lingua che parliamo? Perché ci vergogniamo delle nostre radici?!
Personalmente posso dire di essere cresciuta in una famiglia „italo-rovignese“ e di aver potuto godere nell'esserlo: ho avuto la possibilità di parlare liberamente l'italiano e di classificarlo come lingua madre, di frequentare un asilo e una scuola italiana dove ho conosciuto persone simili a me benché già allora ho potuto notare che gli altri bambini ci guardavano in un modo diverso, ci vedevano come esseri strani e come ho detto all'inizio, ci categorizzavano tutti allo stesso modo, usano nomignoli e offendendoci, ma ciò non mi ha impedito di essere fiera di me stessa e delle mie radici, a dire il vero è successo tutt'altro – nonostante il fatto che molti dei miei compagni si siano ormai „croatizzati“, io non ho mai perso la voglia ed il desiderio di scoprire sempre più a fondo questa lingua e tutti i dialetti ad essa correlati come ad esempio quello rovignese, ed ora posso dire di essere in un certo senso più ricca culturalmente e posso vantarmene. Oltre ad essere linguisticamente più ricca, sono molto fiera di poter portare avanti una tradizione a me molto cara: quella del canto, sia quello tradizionale delle arie da cuntrada, bitinade e arie da nuoto, che quello più moderno e strumentale basato su testi scritti da illustri personaggi Rovignesi come ad esempio il grande Piero Soffici che troveranno sempre un posto nel mio cuore e nella mia vita.
Oggi io vivo in una Rovigno nuova e sono cosciente del fatto che la modernizzazione e lo sviluppo abbiano influito su questo modo di vivere e di comportarsi. Purtroppo sempre meno persone apprezzano la propria pluriculturalità e tendono ad esprimere ed imporre il proprio odio interculturale anche ai propri figli trasmettendo un concetto ed un insegnamento sbagliato. Ritengo che se una persona non accetta l'essere di un'altra, la cosa migliore sia semplicemente ignorare il tutto e non cadere a livelli così penosi e
offendere qualcuno. Io continuerò sicuramente a portare avanti la cultura della mia minoranza a testa alta consigliando sia a me stessa che agli altri di ripensare a quanto i nostri antenati abbiano fatto per poterci far vivere in questo mondo e in queste condizioni, a quante persone hanno dato la propria vita o sono scappate per poter salvaguardare i propri beni culturali per poter poi creare un qualcosa di così bello e unico e a quanto noi dovremmo essere grati di aver ricevuto tutto servito su un piatto d'argento. Mi ricorderò sempre del mio bis bisnonno e del mio bisnonno e sarò sempre grata sia a loro che alla mia famiglia, di avermi permesso di essere libera di esprimermi e di aver facilitato la mia crescita facendomi accompagnare da queste tradizioni che certamente non dimenticherò presto. Come si suol dire „la speranza è l'ultima a morire“, quindi io continuo a sperare in un futuro migliore dove cesserà ogni forma d'odio e tutti saremo fieri di chi siamo senza fare differenze e discriminazioni.
Xe tante le storie che me conta mio nono, storie de mar, storie de batane, storie dela mia tera. Lui el me conta sempre de quando che el iera picio. El xe nato nel ’41, iera quei ani de guera e nol ga mai conusudo suo papà, perché el xe stado un partigian e i tedeschi lo ga masado in guera. Cusì mio nono xe stado cresudo solo de mia bisnona, de sua sorela e de suo nono, che iera contadin. Lui dixi che non iera tempi facili, ansi iera tempi duri, ma a diferensa de altri che i se la pasava pexo, i gaveva la fortuna che suo nono portava sempre a casa qualche verdura per cena, e che sua mama tabachîna, la ciapava la paga. Go sentido tante storie su mia bisnona, la cantava sempre e la dixeva che la gaveva pasado tuta la sua vita in Manifatura Tabachi a far i sigari toscani, ma non la gaveva mai provado a fumar. Mio nono ghe combinava de cote e de crude, la diventava mata a ciamarlo per le contrade de Rovigno, non la saveva mai dove che el iera e cosa che el combinava. Lui el ghe ne combinava de tuti i colori, el pasava i dopopransi coi i muloni dela contrada a giogar, a saltar per i teti, a sconderse, a ciapar i colombi e el tornava a casa solo quando che faseva scuro. D’estate i giogava balena scondi in mar e i se butava in rococò dela Balota, a Monte. Tante volte el vegniva a casa tuto insanguinà.
Una volta che gaveva nevigà, lori non i iera abituadi ala neve, perché a Rovigno non nevicava quasi mai, e i se gaveva costruido le slite con dele tole, calandose poi per le canisele de monte.
Lori i andava in Oratorio, noi iera basa banchi, ma i preti i gaveva el bigliardin e anche perché a Rovigno iera venudo el cinema, lui e i suoi amici i ghe domandava al prete de darghe i soldi per andar a vedi un film. Ma el prete non doveva però scoprir che iera un film sui indiani e i cowboy, perché nol ghe gaveria dado i soldi per veder gente che se masava. Le contrade gaveva le bande, e tante volte i iera una contro l’altra. Alora i se conoseva tuti, però i non se ciamava per nome, perché i gaveva tuti un soranome de famia. Mio nono i lo ciamava Uccio pisinceʃa, sto soranome non ghe piaxeva ma i ghe lo gaveva dado a un suo parente pescador che el andava a vendi i pesi anche in cexa. A lui la ghe se andada anche ben, certi gaveva dei soranomi molto pegiori!
El suo pasatempo preferido iera sonar la tromba, eli i era el più picio sonador de banda de Rovigno, e sta pasion la iera cusì forte che lui la sona ancora ogi. Visto che el i era bravo de sonar, quando el xe diventado più grande el ga comiciado anche a guadagnar qualche soldo sonando al balo. Cosa? Non savè cosa che iera el balo? Ma xe la discoteca dei ani ‘50, dove che la musica iera sonada e cantada dal vivo e ti podevi strenxi la ragasa che te piaxeva balando un lento. Al giorno de oggi non esisti più el balo, i giovani non ga più el bisogno de strenxi la ragasa che ghe piaxi, i lenti non xe più de moda. Noi semo le nove generasioni che posta le foto su Instagram e su Facebook, non gavemo più tempo per nesun, coremo drio de sogni virtuali, de ilusioni che vien de lontan.
Quando scolto mio nono che me conta le sue storie, penso sempre che anche se iera tempi dificili, tempi de miseria, me piaxeria almeno per un giorno vivi a quei tempi, poder cori con lui sui teti, tufarme in rococò, sentirlo sonar le cansoni romantiche de una volta, quele che ga fato inamorar mia nona de lui.
Bisogna dedicare tempo per ascoltare la vita degli altri per tresformarli da ignoti senza volto a individui.
Siamo affascinati dall'arte, tante volte però non siamo consci che la vita di noi tutti è arte. Tutti siamo artisti senza volto che con il pennello della vita ci dipingiamo. Perché allora non ci fermiamo ad ammirare la vita delle persone, in silenzio, con lo sguardo perso e affascinato proprio come facciamo in una galleria d'arte osservando dipinti o sculture. Ascoltare gli altri o semplicemente osservarli ci arricchisce come individui e ci aiuta a modellarci. Osservare qualsiasi cosa, oggi è una rarità perché nessuno si ferma, perché troppo impegnati a correre dietro al tempo.
Io ho però deciso di fermarmi e guardare. Cercando tra la gente, vidi un vecchio elegantemente seduto su una panchina ad osservare il mare. Iniziai ad analizzare tutti i tratti del suo viso dal quale non lasciava trasparire nessun emozione. Il viso era freddo con due occhi stanchi, gli zigomi lasciavano intravedere le ossa, le labbra erano rosse e screpolate. La pelle candida era macchiata dal tempo e le rughe che sembravano emozioni cicatrizzate e impresse li per sempre. Ascoltando il vecchio non riuscì ad apprendere nulla e di conseguenza continuai a osservare. Cercavo d'infiltrarmi nel suo passato, nei suoi ricordi per poter dargli un identità. Immaginai che fosse stato un pescatore sin da ragazzino perché la pelle scabrosa sembrava emanare l' odore dolce del mare. Gli occhi sembravano persi nella profondità del mare, forse ripensavano alle onde che si infrangevano su di lui durante una tempesta, alle innumerevoli albe osservate dalla sua piccola barca. Mi sembrava quasi che il vecchio stesse ringraziando il mare.
Ma poi il suo volto mutò alla vista di un bambino che passava di là. Sul viso che prima non lasciava trasparire alcuna emozione adesso si dipingeva un sorriso sincero e caloroso, gli occhi erano sgranati e la loro stanchezza si trasformo in allegria. L' uomo sembrava rinato. Finalmente potei udire qualcosa. Il vecchio rideva come un bambino e mormorava le parole di una canzone. Si alzò, mise su il cappello e si ritrasformò nel cupo e vecchio signore che inizialmente mi misi ad osservare. Con un passo stanco si allontanò lentamente. Si fermò un attimo e fece un respiro profondo quasi a ripensare alla follia commessa esponendo parte di se al giudizio altrui. Perché proprio come l´arte anche il volto delle persone può essere interpretato in svariato modo ed è di questo che la gente ha paura.
Osservando una persona ed ascoltando il suo animo si può capire molto di qualcuno. Guardando attentamente qualcuno si può trasformarlo da uno sconosciuto ad un amico. Anche se le persone reputano ciò un perdita di tempo bisognerebbe saper fermarsi per un attimo ed asscoltare gli altri per capire veramente se stessi.
PREMIO SPECIALE “REGIONE ISTRIANA” - Scuole con lingua d’insegnamento italiana situate nel territorio della Regione Istriana - Categoria “a“:SPECIJALNA NAGRADA “ISTARSKA ŽUPANIJA” – Škole s nastavom na talijanskom jeziku, na području Istarske županije - Kategorija “a“:Elementari – Lavori individuali: motto GREMBIULINO Luna Sergo Classe III - b Scuola Elementare Italiana Giuseppina Martinuzzi” Pola
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“Bisogna dedicare tempo per ascoltare la vita degli altri per trasformarli da ignoti senza volto a individui”
Tutti noi nel corso della nostra vita abbiamo sentito ripeterci la frase “non giudicare qualcuno prima di conoscerlo” che forse era nella forma di un “ciò che conta è quello che abbiamo dentro”. Scommetto che per molti questa sia stata la prima lezione di vita data dai genitori. Ma crescendo diventa sempre più difficile trovare il tempo e l’interesse per ascoltare le storie degli altri e sempre più facile lasciarci trascinare dai pregiudizi, dai pettegolezzi e dagli stereotipi. È incredibile quanto riusciamo a sbagliare strada quando ci lasciamo guidare dagli stereotipi riguardati la religione, il rango sociale e, addirittura, la nazionalità. Chi è musulmano è terrorista, chi è povero è uno scansafatiche, chi è ricco è invece senza scrupoli, chi è iraniano è un pericolo. Queste sono alcune delle conclusioni a cui si giunge quando non si dà l’opportunità di raccontare come stanno davvero le cose. E pensare solo quante storie meravigliose, quanto coraggio quanta forza siano nascosti dietro quella barriera di pregiudizi. Sono le cosiddette etichette sociali che non ci permettono di vedere la bontà di una persona nascosta dietro la religione o il sacrificio nascosto dietro la povertà o il duro lavoro dietro la ricchezza.
Tutti noi abbiamo una storia che ci rende unici, un insieme di episodi e avventure che abbiamo accumulato nel corso della nostra vita. Vogliamo essere sentiti, vogliamo raccontare la nostra storia, ma quando arriva il nostro turno di ascoltare, le cose si complicano. Vi è mai capitato di incontrare una persona e trovarla subito estremamente simpatica o antipatica? Così, senza alcun motivo particolare, solamente per qualche mistero del quale solo la nostra mente è a conoscenza. Ma ascoltandone la storia, il nostro primo impatto può essere facilmente ribaltato. Oserei dire che la vicenda di una persona sia persino più importante del suo nome. A tutti può succedere di dimenticare il nome di qualcuno, ma una volta sentita una storia, essa si imprime nella mente e si lascia andare difficilmente. Praticamente è come un gioco memori da bambini: guarda il volto e fruga tra le storie per trovare quella giusta da abbinare. O forse, assomiglia un po’ anche a fare i detective, andare nei minimi dettagli: investigare sul perché uno abbia quella cicatrice o quella fobia o magari anche quel tatuaggio. Anche in questo modo si viene a conoscenza della vicenda altrui.
Spesso diamo per scontata l’importanza dei particolari, dietro una cicatrice può essere nascosta un’avventura incredibile, un frammento di vita indispensabile per capire il suo portatore. Un tatuaggio può essere interpretato come un atto di ribellione, una dedica a una persona amata oppure una dichiarazione personale, ma non lo sapremo mai se non ci azzardiamo a chiedere e tendere l’orecchio per dare ascolto.
Tutti noi abbiamo studiato la storia come materia scolastica però sarebbe l’ora di imparare come conoscere e rispettare la storia di una persona. Inoltre, quando eravamo piccoli i genitori ci raccontavano la storia della buona notte, spesso era un racconto tratto dal loro passato per insegnarci sin da piccoli la bellezza dell’ascoltare che crescendo abbiamo perso per strada. Per non parlare delle vite delle persone che vengono raccontate con più di qualche ritocco dai media. Televisione, giornali e Internet censurano e manipolano pezzi di storie fondamentali, non lasciano parlare quelli che ci farebbero cambiare punto di vista con la loro storia. Ad esempio, oggidì uno dei temi più nominati è quello degli immigrati. I mass media non fanno altro che rappresentarli come un pericolo, creando una sensazione di paura, intolleranza o, peggio, odio negli ascoltatori. Pochi invece, raccontano la storia di un padre di famiglia in cerca di un futuro per la propria famiglia o di una bambina che trascorre tutta la sua vita in fuga. Questa è la grande differenza che si ottiene quando si escludono parti di una storia.
Anche noi spesso ci lasciamo talmente coinvolgere dal mondo dei gossip che trascuriamo le storie delle persone che ci stanno vicino. È incredibile quante cose nuove possiamo scoprire di una persona a noi cara se apriamo bene le orecchie. Non ci vuole poi tanto tempo e neppure tanta fatica a fare qualche domanda a qualcuno che ci sta accanto, eppure ce lo dimentichiamo sempre. Siamo così presi nello scrivere la nostra storia, che dimentichiamo di ascoltare l’altro. Se ci pensate bene, in fondo le persone alle quali vogliamo bene danno un loro contributo al nostro racconto. Come noi veniamo a contatto con molte persone nel corso della nostra vita così le nostre vicende si intrecciano e lasciano una traccia. Nell’ascoltare una persona quando racconta le proprie avventure bisogna anche osservarla, guardare la sua faccia che cambia espressione mentre s’immerge nel racconto, le mani gesticolare, il tono della voce variare di frequenza e gli occhi diventare lucidi dall’emozione - il tutto insieme dona un tocco particolare alla storia. Così possiamo vedere in fondo se si tratta di storia o leggenda, chi racconta la propria vera storia viene preso da un vortice di emozioni rivivendo il passato o raccontando il presente, che è
difficile da imitare per quelli che vogliono aggiungere qualche elemento fantastico al loro racconto per apparire più attraenti agli occhi della gente. Quello che rende le storie della gente particolari sono le emozioni. Direi che esistono quattro emozioni principali: l’amore, l’odio, la felicità e la tristezza; esse si mescolano e danno vita a nuovi sentimenti man mano che la nostra cronaca di vita si sviluppa. È sufficiente guardare la faccia del narratore per capire da quale emozione sia pervaso. L’incurvatura delle labbra ci rivela la gioia, l’allargamento delle pupille l’amore, l’arrossamento delle guance l’imbarazzo e il corrugamento delle sopracciglia la rabbia. La nostra storia ci rende quello che siamo, ma, pensandoci bene, se qualcuno ci chiede chi siamo, che cosa bisogna rispondergli? Intuitivamente diremo il nostro nome e poi come si continua, da dove si inizia? Dare un resoconto della nostra vita è impossibile, è un caos totale di avventure, emozioni, immagini e intrecci. Ma è proprio qui che si nasconde la bellezza delle nostre storie, nel disordine. Più attorcigliato e scompigliato è il nostro racconto più la nostra vita è speciale. Le nostre storie sono pezzi di noi, ci hanno resi quello che siamo e avranno un ruolo enorme nel decidere quello che dobbiamo ancora diventare. Perdere un frammento di storia vuol dire perdere noi stessi, questo è quello di cui dobbiamo avere paura: l’oblio.
I miei primi ricordi di quando ero proprio piccolino sono legati alla festa di San Nicolò che i fiumani celebrano con gioia regalando ai bambini frutta e dolcetti, qualche giocattolino. Mettevo un piatto sul davanzale della finestra di mia nonna e al mattino lo ritrovavo pieno di tante cose buone. La festa di San Nicolò è una delle espressioni più genuine della ricca tradizione fiumana.
È stata appunto mia nonna, la mamma di mia mamma, che mi ha insegnato fin da piccolo i valori della tradizione fiumana e della cultura italiana. Io provengo da una famiglia nata dai cosidetti matrimoni misti, mamma italiana e papà croato, ma in casa nostra si è sempre parlato italiano e, oltre a mia madre, nella mia formazione culturale italiana, ha avuto un ruolo fondamentale proprio mia nonna. Attraverso i suoi racconti ho appreso la ricca storia della mia città e della terra in cui sono nato oltre a un po’ dell’immenso patrimonio storico, architettonico e culturale cui appartengono le mie radici italiane. Posseggo una raccolta di libri e libriccini naturalmente in lingua italiana che fin dalla mia prima infanzia mia nonna mi leggeva e mi faceva leggere. Nelle sere in cui passavo la notte in casa sua e stentavo ad addormentarmi mia nonna mi cullava cantandomi canzoni fiumane, scioglilingua, filastrocche e proverbi che ricordo con piacere ancora oggi. Mia nonna mi ha insegnato quanto sono preziosi per un popolo usi e costumi. Nonna ha il potere di commentare un fatto aggiungendo i suoi i ricordi e ogni volta ne viene fuori una lezione di storia che, come dice mia nonna, non si insegna a scuola ma arricchisce il mio bagaglio personale di cultura. Sempre secondo mia nonna la cultura ha le radici nell’educazione familiare.
Nelle vicissitudini attraversate dalla città di Fiume e dai suoi abitanti determinati usi e costumi hanno una grande importanza e queste tradizioni in casa di mia nonna e di conseguenza nella mia famiglia sono fortemente rispettate. Fiume è da sempre una città multiculturale, multilingue e multietnica dove la gente proveniente da mezza Europa ha sempre convissuto pacificamente lasciando ognuno un’impronta specifica. Mia nonna mi ha raccontato che sua madre, la mia bisnonna, è vissuta sotto quattro sistemi differenti senza mai muoversi dalla propria casa: l’Austria – Ungheria, l’Italia, la Jugoslavia e infine la Croazia. In casa nostra si rispettano le festività religiose e per Pasqua e Natale si fanno grandi feste in famiglia ma ci sono anche altre ricorrenze della tradizione fiumana che si tramandano da generazione in generazione. Tra gli usi fiumani è compreso anche il Carnevale che rappresenta un momento di grande allegria in cui ci si può trasformare nel personaggio che più ci piace. Un’altra ricorrenza molto cara ai fiumani è la festa di San Vito, patrono della città di Fiume assieme ai Santi Modesto e Crescenza.
Mia nonna mi ha fatto conoscere i monumenti e gli edifici più significativi della mia cittù e pure il Cimitero monumentale di Cosala . Il cimitero è un museo all’aperto della ricca storia di Fiume. Le iscrizioni sulle lapicdi testimoniano del tempo passato e le opere cimiteriali di grandi scultori e brillanti scalpellini ricordano i personaggi che hanno contribuito a far conoscere Fiume in tutto il mondo.
Individua nella letteratura italiana l'opera che ti affascina maggiormente e motiva le ragioni personali della tua preferenza
Dante Alighieri – La “Divina Commedia”
Dante Alighieri, il Sommo Poeta, scrisse il suo capolavoro durante il periodo del suo esilio da Firenze nei primi anni del XIV secolo, che si protrasse fino alla notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, data della sua morte a Ravenna.
Parlando della struttura dell’opera, possiamo dire che l’opera è divisa in tre cantiche, ognuna rappresentante una delle fasi del viaggio di Dante – Inferno, Purgatorio e Paradiso – ognuna di esse divisa in trentatré canti, trentaquattro per quanto riguarda l’Inferno, che presenta il proemio. Il poema è scritto in terzine dantesche, ovvero terzine endecasillabi. Tutta la struttura richiama la simbologia del numero tre, visto nel Medioevo come un numero quasi magico, che richiamava la Santa Trinità.
Come consono al periodo storico, l’ambientazione della “Divina Commedia” prende ispirazione dalla Bibbia e dalla concezione cristiana dell’oltretomba. Il poema inizia con il personaggio di Dante smarrito in una selva (“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita.”) che rappresenta in modo allegorico una selva di peccati. Il racconto continua con il protagonista che viene guidato da Virgilio – il noto scrittore dell’”Eneide” – attraverso tutti i cerchi dell’Inferno e attraverso il Purgatorio, per poi continuare il suo viaggio accompagnato da Beatrice – la sua amata, la sua musa, la sua “donna angelo” – e successivamente da San Bernardo attraverso il Paradiso.
Ci si potrebbe chiedere come, nel XXI secolo, sia ancora possibile apprezzare quest’opera d’arte medioevale. Parlando francamente, la vita oggi è totalmente diversa, e il concetto base della “Divina Commedia” – la redenzione dai propri peccati, l’avvicinamento a Dio – può quasi considerarsi un concetto superato. Il numero di cristiani diminuisce, qualcuno si converte a qualche altra religione, qualcun altro si considera agnostico o ateo, e coloro che ancora affermano di essere cristiani non hanno comunque lo stesso timore di Dio che avevano i credenti durante l’epoca di Dante. Secondo la mia modesta opinione, la “Divina Commedia” rappresenta la natura umana, il pensiero dantesco, e funge da specchio di una realtà che a noi sembra così lontana, ma che forse non lo è così tanto. L’autore trasmette le emozioni del personaggio nei vari stadi del suo viaggio, e non sono certo le sensazioni di un alieno, ma di una persona come me, o come chiunque stia leggendo questo testo in questo momento. E, se le poesie sono le parole migliori scritte nell’ordine migliore, allora possiamo affermare che tutta la “Divina Commedia”, nonostante la lunghezza e la corposità del testo, è una poesia, che riesce a far provare al lettore il terrore del protagonista, smarrito in una selva, così come la sua compassione nei confronti di Paolo e Francesca – peccatori destinati a passare l’eternità nel cerchio dei Lussuriosi – in quanto rei del peccato che egli stesso considerava il meno grave, ma di cui anche lui si era macchiato: l’amore, che lui continuò a provare per la sua Beatrice anche dopo la sua morte. Inoltre, Dante fu un uomo tradito dalla società del suo tempo, che lo esiliò per dei crimini che non aveva commesso – baratteria e frode – contro la quale si scagliò nella sua opera. Tutti i soggetti secondo lui moralmente compromessi finirono nel suo Inferno, probabilmente la sua unica valvola di sfogo dopo tutto ciò che aveva subito. Tornando al suo pensiero, bisogna ricordare che fu Dante a risolvere il dilemma che prima di lui afflisse Guido Cavalcanti – che considerava l’amore come un tormento, amare la donna era un peccato in quanto ognuno doveva amare Dio più di ogni altra cosa – e Guido Guinizzelli – secondo il quale la donna era paragonabile ad un angelo – affermando che la donna è un angelo, una creazione divina, per cui amarla significa amare Dio, ed è possibile trovare un riferimento a questo concetto nel semplice fatto che fu proprio Beatrice a guidarlo nel Paradiso.
In conclusione, penso che, nonostante le tematiche principali ben lontane dal pensiero moderno, la “Divina Commedia” di Dante si possa considerare ancora oggi attuale per via dei concetti di fondo ancora presenti nella mentalità odierna.
I nostri noni ne conta – storie e memorie del vostro passato familiare
ANCHE MEA NONNA MARIUCCIA UNA VOLTA LA IERA PICIA
Mia nona Mariuccia xe nata a Canfanar, un paesin visin de Canal de Leme e de Rovigno. Sento ani fa fin a Canfanar ghe rivava la ferovia che la andava de Trieste fin a Parenzo e Canfanar e che tudi conosemo con el nome de Parenzana. A casa de mia nona i parlava in dialeto istrian, per questo la me disi che non la xe brava a parlar talian. A mi me piasi tanto quando la sento parlar in dialeto. Quando la nona Mariuccia me parla de quando la iera picia me par quasi che la xe nata sinquesento ani fa. Quando ela la iera picia a casa no i gaveva la televison, la lavatrice, gnanca la lavastoviglie, gnanca internet, se lavava tudo a man; la tera la arava con le armente e con i manzi, i gaveva anche un boscarin. I fioi aiutava i genitori, i lavorava in campagna, in stala, e chi gaveva tempo per giogar?! Mia nona Mariuccia me conta che la iera tanto contenta quando i gaveva de amazar el porco ma non per maniar le luganighe e el prosciuto, quei i veniva vendudi per comprar robe che non iera in casa e per pagar le tasse. Con la besiga del porco i fioi se faseva una bala e quel iera per lori el giogo più bel del mondo.
Mia nona Mariuccia xe bona come el pan e la fa i gnochi più boni del mondo. Quando iera picia mia nona iera golosa come mi, ma a quei tempi i dolci se maniava solo per grandi feste come la Pasqua, el Nadal o matrimoni. El suchero iera vendudo a un quarto de chilo e quando mia nona Mariuccia andava a comprarlo la tornava a casa con la scodela mesa svoda, ma sua mama non diseva gnente. In estate mia nona Mariuccia ingrumava le more e le vendeva in coperativa. Con quel che la ciapava la comprava quaderni, libri e matite.
Per mi queste xe come storie de un altro mondo, ma le xe storie vere de mia nona Mariuccia che mi stimo tanto, cusì tanto che go voludo parlarve de ela.
Una giornata particolare
Primo giorno al liceo
Sento già la nostalgia del caldo sole estivo. Ora il vento soffia più forte e le punte delle foglie si stanno colorando con le tipiche sfumature autunnali. Mi affaccio alla finestra di camera mia e inspiro profondamente l’aria pungente della sera. Eccomi, Aza Holmes che cerca di calmarsi, ”trovare la pace interiore”, e tutte quelle cose per prepararsi ad affrontare la giornata di domani, -ovvero il primo giorno al liceo- possibilmente illesa. Poso gli occhi sul viale alberato poco familiare che curva e porta alla strada. Sì, io e i miei genitori ci siamo appena trasferiti. Nuova città, nuova scuola, casa nuova. Questi tre fattori implicano una maggiore difficoltà. Non conosco nessuno dei miei futuri compagni di corsi. Vi starete chiedendo ”qual è il problema?”. Allora, prima di tutto il mio cognome sta alla base di molte battutine infantili e sciocche: Holmes.. Ma, ad aggiungersi a questo c’è il mio strabiliante ed incredibilmente singolare nome: Aza. L’ha inventato mio padre. Lui dice sempre “Aza è un nome stupendo perché comprende tutte le lettere dell’alfabeto e ritorno.” Sì, è particolare, come me d’altronde.
È mattina. Sveglia. Vestiti. Colazione.
Mamma e papà sono entusiasti e cercano di alleggerire la situazione, parlando di cose di poco conto. Io rispondo a monosillabi svogliati.
Finisco la mia colazione. Esco dalla cucina, e mi infilo un cappotto, prendo un cappello dall’appendiabiti che si trova nel corridoio di casa. La morbida lana del berretto mi scalda. Cerco di nascondere i riccioli neri, ma dopo poco lascio perdere e abbandono la caotica massa nera su una spalla. Un’ultima occhiata allo specchio a figura intera vicino alla porta, ed è ora di partire. Mi carico lo zaino in spalla e per un attimo mi sbilancio per colpa del suo peso. Ritrovo l’equilibrio e apro la porta di casa. Chiudo gli occhi per non venir abbagliata da un pungente raggio di sole. Mi guardo intorno, è una giornata stupenda. Non una nuvola a macchiare l’azzurro del cielo. Volto l’angolo e adocchio la mia macchina, una Range Rover Sport immacolata. Monto in macchina e accendo il motore ronzante. Sorrido e parto. Esco dal viottolo di casa in retromarcia e faccio una manovra sicura ed esperta per raggiungere la strada. Tiro giù il finestrino facendomi investire dall’aria fresca e dolce. Percorro il viale di vecchie querce che formano una sorta di cupola sopra la mia auto. Arrivo alla strada, viro a destra e imbocco il traffico caotico. Dopo pochi minuti arrivo a destinazione. Parcheggio nel posteggio auto del campus e con una veloce torsione del polso giro la chiave spegnendo di conseguenza il motore della Rover. Sono in anticipo. Prendo lo zaino ed esco dalla macchina. Attraverso il parcheggio e faccio lo slalom tra gli altri veicoli parcheggiati. Entro in segreteria. Davanti a me si trova un’imponente scrivania di legno scuro, dall’altra parte del tavolo siede una signora- la segretaria- che subito mi sorride e mi tende la mano. “Piacere io sono la signorina Cope la segretaria, tu devi essere la nuova arrivata Aza Holmes, mi sbaglio?”. Le stringo la mano con gratitudine e chiedo il mio orario. Con un sorriso mieloso la Cope mi porge una cartellina con l’orario e della noiosa documentazione.
Ringrazio e mi volto per uscire dall’ufficio, spalanco la porta che dà sul corridoio gremito di gente e sbatto contro qualcosa finendo lungo distesa a terra. Cerco di ricompormi e in quel momento scopro che “quel qualcosa” in realtà è “un qualcuno”. Arrossisco all’improvviso quando poso gli occhi sul ragazzo (vittima della mia attitudine scoordinata) che mi squadra con sospetto dalla testa al piedi. Mi rialzo svelta e scappo via con la vergogna dipinta in faccia. -Aza calmati- mi incoraggio, e va un po’ meglio. Sono alla ricerca di un armadietto libero. Lo trovo e ci butto dentro la mia roba. La campanella suona, tutti nelle aule!
-Ok. Dimentichiamoci dell’incidente e ripartiamo alla grande- cerco di confortarmi.
Prima ora algebra. Nuovo piano: sopravvivere fino all’ora di pranzo.
Entro nell’aula e mi siedo il più lontano possibile dagli altri studenti, per non attirare l’attenzione mi butto il cappuccio in testa.
L’ora è iniziata da un pezzo, ma il prof non è intenzionato a cominciare la lezione. Sento la porta della classe aprirsi e velocemente richiudersi, dopo un susseguirsi di passi frenetici. La sedia vicino al mio posto scricchiola e finalmente vedo il volto della ritardataria che cerca di salutarmi, invano per colpa del fiatone. Si volta, mi sorride e mi tende la mano dicendo: ”Piacere di conoscerti, io sono Libby Lewis e sono arrivata in ritardo e tu sei?” parla velocissima. “Aza Holmes, piacere” saluto. “Il piacere è tutto mio Holmesy!”ridacchia lei di rimando. Stranamente il nomignolo non mi dà fastidio. La Lewis mi va a genio. Il susseguirsi delle lezioni è piacevole. Presto io e Libby scopriamo di avere “le stesse ore, la stessa ora” per così dire. Lei mi spiega come funzionano le dinamiche del liceo e io gliene sono tremendamente grata. Io non dico granché essendo di indole taciturna ma si trova un buon equilibrio perché Libby non smette mai di parlare. Mi piace ascoltarla. La mia nuova compagna si fa strada nella mensa e si appropria di un tavolo in un angolo. Sorrido, mi guardo intorno e penso- ora di pranzo tutto liscio Huston- (a parte l’ incidente con il ragazzo di questa mattina). La calma non dura molto perché, Libby riparte a parlare del più e del meno. E chiede: ”Vuoi che continui a parlare ?” Io annuisco decisa. Lei continua: ”Sai quando la gente dice – le piace proprio ascoltarsi?- Ecco a me piace proprio ascoltarmi. Ho una voce al posto della radio”. Io rido e continuo ad ascoltarla per il resto della pausa pranzo. Quando mancano pochi minuti alla lezione successiva, decidiamo di uscire dalla sala mensa strapiena di studenti. Volto l’angolo per raggiungere il corridoio e cado a terra maledicendo la forza di gravità che mi attira al centro del pianeta. Cercando di mantenere almeno l’ultimo briciolo di dignità che mi resta, mi rialzo disinvolta. Sento il peso di due occhi glaciali che mi fissano dall’alto. E in quel momento mi dico –grave errore Aza, hai appena investito Molly Blake , ovvero il capitano del corpo di ballo studentesco-. Con i suoi occhi glaciali Molly mi sta fissando con astio. In un attimo tiro Libby (che sta accanto a me) per la manica e mi dileguo tra la folla. E sono due. Questa giornata sta andando a rotoli.
La monotona campanella suona la “libertà”. Libby mi saluta con un abbraccio e si dirige verso il parcheggio che si sta lentamente svuotando. Io raggiungo il mio armadietto. Spalanco gli occhi. A risaltare sul grigio del metallo c’è una scritta rossa a caratteri cubitali che recita “SEI NEI GUAI WATSON”, firmato M..B.
Infine la Blake ha trovato un modo ingegnoso per vendicarsi. Mettendoci tutto l’autocontrollo in mio possesso cerco di ignorare la minaccia. Provo ad aprire l’armadietto, che stranamente non si apre. Ci riprovo con più impegno. Aggrottando la fronte mi rendo conto che mi ha cambiato la combinazione. Frustrata picchio la testa contro il muro.
Sento dei passi. Raggelo. Mi volto di scatto. Ecco avvicinarsi il (mio primo incidente): il ragazzo vittima della mia goffaggine. Mi si avvicina. È alto con dei grandi occhiali e indossa una maglietta tutta scolorita. ”Ciao, tu devi essere…Watson?” mi saluta indicando la scritta rossa. “Holmes” lo correggo ansiosa. Lui arrossisce e si scusa. Io minimizzo. ”Ti hanno cambiato la combinazione?” mi domanda. Io annuisco e mi domando -ma questo qui mi legge nel pensiero?- “È un classico” continua. Tira inaspettatamente fuori dalla tasca una graffetta e comincia a scassinare la serratura. Di colpo si ode il “clic” deciso della serratura che scatta e si apre. Lui sorride soddisfatto del suo operato. Io lo ringrazio. ”Piacere, Simon Stone al tuo servizio” e si passa una mano tra i capelli in disordine. “Aza” mi annuncio avvampando. Esco nel parcheggio. È quasi vuoto: gli unici veicoli rimasti sono il mio e il suo. Ci salutiamo sorridendo e saliamo sulle rispettive automobili. Simon accende la sua e mi fa un altro sorriso salutandomi per la centesima volta con la mano fuori dal finestrino. Io premo sul clacson e urlo per sovrastare il rumore: “A domani!”
Torno a casa.
Sera. Pigiama. Sonno.
Il peso di questa giornata si fa sentire. Mi chiedo soprappensiero: “C’è una parola per riassumere questa giornata, come il mio nome, Aza comprende ogni lettera dell’alfabeto dalla A alla Z? Sì, semplicemente particolare come me d’altronde”.
Bisogna dedicare tempo per ascoltare la vita degli altri per trasformarli da ignoti senza volto a individui (Jenny Erpenbeck: autrice tedesca).
Rifletti sulla citazione del titolo e spiega quanto sia fondamentale conoscere la vita di una persona prima di esprimere un giudizio
A casa mia abbiamo l'abitudine di pranzare il sabato o la domenica tutti assieme, invitando pure i nonni. Tre generazioni dai diciotto appena compiuti (io), ai quasi novanta del nonno materno. Si preparano cose buone e poi, generalmente, arrivati al dessert, c'è sempre qualcuno che introduce un tema ed ecco che iniziano le discussioni. Ne scaturiscono opinioni alquanto diverse su varie persone o avvenimenti. I miei genitori sono più drastici nei loro giudizi, la nonna paterna è, a dir loro, troppo empatica e trova una giustificazione per tutto e tutti. Mio fratello sminuisce le tensioni con battute umoristiche e il più anziano di noi non si pronuncia troppo in quanto nella sua lunga vita, ne ha passate di tutti i colori e sa che, comunque vada, si riesce a cambiare ben poco. Io finora facevo più o meno scena muta, ma adesso che sono entrata nel mondo degli adulti e che sono, come direbbe la nonna fiumana „magiorene e vacinada“, sento il bisogno di capire perché persone che in genere funzionano bene insieme, d'amore e d'accordo, quando si toccano certi argomenti, diventano tanto differenti. E così, per poter essere più partecipe in futuro, mi sono documentata un po' sul modo in cui si formano i giudizi. Il processo inizia nel nostro cervello che richiede informazioni rapide che vengono immediatamente classificate e messe in relazione con la nostra personalità e con le esperienze precedenti. Questi elementi soggettivi aggiunti, spesso ci fanno etichettare ciò che ci circonda, in base a schemi che non sempre corrispondono alla realtà. Se ci fermiamo qui, corriamo il rischio di formare un giudizio affrettato e, probabilmente, ingiusto verso il soggetto, l'avvenimento o il luogo in questione.
Ci vuole calma, un po' di tempo e specialmente saggezza e osservazione per evitare giudizi precipitosi ed entrare negli stereotipi. Con la calma si riescono a sentire anche le ragioni degli altri, le loro esperienze e le possibili cause dei vari comportamenti. Purtoppo sono proprio il tempo e la pazienza che di solito mancano nei nostri rapporti con il prossimo. Conoscendo più a fondo una persona, trasformandola da anonima e parte di un gruppo caratteristico, a individuo, si ottiene quella saggezza dovuta all'esperienza personale che è in effetti l'essenziale per un giudizio. In tal senso, proprio perché mi ha particolarmente colpita, citerò, una frase generalmente attribuita a Luigi Pirandello: Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere metti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate... Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e soprattutto prova a rialzarti come ho fatto io... Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare.
È facile formare stereotipi ed è ancora più difficile uscirne una volta formati. E non è una caratteristica solo dei tempi che corrono. È probabilmente qualcosa che ormai fa parte della nostra civiltà. Un tipico esempio di questi tempi di globalizzazione e migrazioni, è evitare le relazioni con i vicini in quanto sono di un altro paese o/e appartengono ad altre culture. In realtà, tale giudizio sta definendo noi come persone razziste dalla mentalità chiusa. Spesso i tesori più preziosi, le persone migliori, si nascondono sotto solide corazze. Solo avvicinandosi a cuore aperto, senza pregiudizi, si può accedere a tutti quegli aspetti sicuramente belli ed entusiasmanti che quelle corazze nascondono.
Purtroppo se mi guardo in giro, noto che siamo in un certo modo, tutti dominati da vari pregiudizi: contro i poveri o ricchi, gli intelligenti o gli sciocchi, i magri o gli obesi, i cittadini o gli immigrati, i serbi o i croati. È comodo classificare secondo i pregiudizi. Quello che è più difficile ma è effettivamente nobile e umano, è l'elevarsi al di sopra dell'“anonimo“. D'altronde, anche politicamente è molto facile esprimere un giudizio affrettato solo perchè un' altra persona non la pensa come noi e non ha i nostri stessi interessi. Lo possono testimoniare i commenti sui „social network“ che pullulano di bestemmie e accuse non argomentate. Da ciò concluderei che il pregiudizio è spesso sinonimo di ignoranza e risultato di frustrazioni di vario genere, comune di solito in persone uniformate che non ragionano con la propria testa, lasciandosi guidare da altri che pensano per loro e li manipolano per i propri scopi. Tipico esempio ne sono i politici che sono sempre alla ricerca di altri colpevoli anziché proporre soluzioni per i problemi reali. Governati da pregiudizi non prestiamo attenzione all'interlocutore perché lo abbiamo già categorizzato e sistemato in un gruppo di persone anonime dalle caratteristiche simili. Oggi sono rari quelli che come la scrittrice tedesca Jenny Erpenbeck1, vorrebbero dare un volto a tutti quegli emigrati che sono costretti a bussare alle nostre porte. Ci dimentichiamo che ognuno di loro è un individuo per sé che ha avuto una vita, una famiglia, tanti sogni e che ha un' unica speranza, quella di essere trattato da persona e non da componente di una specie di branco senza volto che viene a turbare le nostre piccole vite borghesi.
Detto questo, concludo che adesso non sono più tanto sicura di voler partecipare alle discussioni famigliari, o almeno non subito. A guardarla così questa generale mancanza di tempo e attenzione da dedicare agli altri, diventa un problema complesso che colpisce maggiormente quelli che avrebbero più bisogno di essere compresi ed aiutati. Purtroppo il nostro mondo con le sue ingiustizie, guerre e migrazioni, sicuramente non aiuta ad alleviare le conseguenze.
Forse potremmo iniziare noi, ognuno per sé, nel nostro piccolo, ad esser coerenti ed obiettivi e a guardare il prossimo non solo con le idee ben chiare, ma soprattutto con il cuore, mettendoci sempre con l'immaginazione nella condizione e nel ruolo di quelli che giudichiamo. Forse non cambierebbe molto, ma farebbe sicuramente bene alla nostra coscienza
: Quanto è stata importante nella tua formazione la presenza di figure della tua famiglia che conservano nelle loro tradizioni e nella loro quotidianità la cultura italiana. Quanto di questo imprinting è ancora vivo e lo ritrovi nel tuo percorso di vita?
La mia famiglia
La mia famiglia è molto importante per me, molte sono le ragioni.
Una di queste è che mi ha insegnato ad essere, almeno un pochino, italiana. Alcuni di più, alcuni di meno. Per esempio, la mia bisnonna paterna ha da poco compiuto novanta due anni e mi racconta sempre delle storie abientate nel periodo della Seconda guerra mondiale. Da lei ho imparato nuove parole, vecchie abitudini e molte altre cose che mi hanno fatta appassionare ancora di più a questa nazione e alle sue tradizioni. Molto importanti sono stati anche i miei nonni materni. Loro mi hanno insegnato a parlare italiano e gli sono molto riconoscente. Grazie a loro posso comunicare con gli italiani o con le persone lo parlano, oppure posso aiutare i miei amici con i loro compiti d'italiano, se ne hanno bisogno. Ho anche moltissimi amici italiani con i quali sono in contatto quasi ogni giorno. Posso esprimermi in un'altra lingua e non è cosa da poco.
Le tradizioni italiane mi appassionano, ma la mia preferita è quella del giorno della Befana. L'Epifania è una delle mie feste preferite. Forse la vera ragione di questo è che mi fa tornare bambina, mi trascina in quel mondo incantato quando da piccola ricevevo una marea di regali e la gioia che provavo mentre li aprivo. Questo giorno era speciale per me anche perché i miei amici croati non lo festeggiavano in questo modo.
Mio zio e mia madre sono stati anche molto importanti nella mia formazione. Ogni membro della mia famiglia mi ha arricchito di nuve conoscenze, ho imparato cose diverse che ora fanno parte della mia personalità. Grazie a tutta la mia famiglia posso dire di vivere in due mondi diferenti ma molto collegati – quello italiano e quello croato. I miei famigliari mi hanno aiutata molto nel mio percorso, nel diventare una persona bilingue, perché so che non tutti hanno la mia stessa fortuna; quella di poter parlare due lingue e vivere due culture diverse.
I NOSTRI NONNI CI RACCONTANO
Quando mio nonno aveva sei o sette anni doveva andare con la mamma a Trieste. Però il problema era la frontiera, perché bisognava avere un permesso speciale con tanto di fotografia da parte delle autorità locali. Dapprima era andato con la mamma dal fotografo e dopo una settimana, quando la fotografia era pronta, l’hanno portata all’ufficio per fare domanda per il permesso. Fatto ciò, dopo circa una settimana, il permesso era pronto. Dopo questi lunghi preparativi finalmente si poteva partire per Trieste, in visita ai parenti e naturalmente, anche per le compere, per le feste che stavano per arrivare. Il giorno prestabilito si parte. Si sale in corriera e via! Mio nonno in parte era contento di andare a Trieste, ma dall’ altra non tanto, perché si vociferava che chi passava per la prima volta la frontiera, al posto di blocco doveva “baciare il culo alla vecchia” e questo non gli andava bene. Il viaggio durò all’incirca un’ora e mezza. Arrivati a Trieste, chiese alla mamma quando sarebbero arrivati dalla vecchia. La mamma si mise a ridere e così, mio nonno capì che la storia della vecchia era uno scherzo. Il permesso durava tre giorni. Passati i tre giorni a Trieste con zii, santoli e conoscenti dovette far ritorno a casa. Arrivato a casa aveva tante cose da raccontare, ma la cosa che gli era rimasta più impressa, fu quella che aveva constatato che a Trieste era sempre festa. Tutti e sempre erano vestiti di festa. Devo dirvi che mio nonno era figlio di contadini e viveva in campagna e non era abituato ai modi di città.
UNA PASSEGGIATA
Nella mia vita ho vissuto una passeggiata molto particolare, e credo che sia stata una delle cose migliori che sarebbero potute capitarmi.
Era l’estate del 2008, durante una bellissima giornata passeggiavo con i miei genitori e alcuni nostri amici. Era una passeggiata speciale, perché proprio quel giorno io ho imparato a nuotare. Vi racconto come sono andate le cose.
La mia amica ed io, da vere bambine curiose, siamo andate a giocare vicino a una piccola riva. In un momento mi sono avvicinata un po’ troppo all’acqua. Volevo vedere i pesci che nuotavano. Un paio di secondi dopo ho provato ad alzarmi ma, perdendo l’equilibrio, sono caduta nel mare (meno male che era estate).
Ho preso molta paura, perché prima di quel giorno non ero mai entrata nel mare senza qualche adulto o per lo meno qualche attrezzo gonfiabile. La mia amica era un po’ più grande di me e sapeva già nuotare. È saltata in acqua subito dopo di me per aiutarmi ed accompagnarmi fino agli scalini che portavano sulla riva. In quel momento però mi ero resa conto che effettivamente mi ci stavo avvicinado da sola. Nuotavo. Da sola. Per la prima volta. La cosa mi è piaciuta a tal punto che, una volta uscita sulla riva, mi sono nuovamente buttata in acqua per raggiungere ancora una volta da sola gli scalini.
Da quel giorno ho iniziato a sognare il nuoto. Ormai sono anni che mi alleno e penso che sia merito anche di quella passeggiata di dieci anni fa. Le cose capitano quando meno te le aspetti.
„I nostri noni ne conta-i nostri nonni ci raccontano“
I racconti della mia bisnonna Ita
Vi racconterò una storia che mia bisnonna Ita mi raccontava quand' ero molto piccolo.
Mia bisnonna è nata nell' isola di Brioni nell' anno 1924 dove viveva fino al 1930. Lei viveva lì perché il suo papà Lodovico lavorava per il signor Karl Kupelwieser. Lui era un ricco signore austriaco, in quel periodo, proprietario dell' isola di Brioni. Mia bisnonna è nata in una famiglia di lavoratori che servivano il padrone dell' isola. Anche se i suoi genitori non erano benestanti lei mi raccontava sempre che le sono rimasti dei ricordi molto belli della sua infanzia sull' isola. A Brioni viveva con i suoi genitori Lodovico e Anna Hegeduz e con i suoi due fratelli, Gualtiero e Lino. Mi raccontava che ogni mattina andavano nei campi a dare da mangiare agli animali che vivevano sull' isola. Lì c'erano dei cervi, dei conigli selvatici, degli scoiattoli e tanti altri animali che vivevano in libertà. Mi diceva che conosceva quasi tutta l’isola perché giocava all' aperto sui prati, nei boschi e vicino al mare. Certe volte si divertivano giocando con dei piccoli animali selvatici che vivevano nel bosco vicino alla sua casa. Uno dei suoi ricordi più belli era il simpatico scimpanzè Missie del padrone dell' isola che faceva divertire i bambini andando in monociclo e mangiando a tavola con gli uomini. Missi era molto ben educata e tutti l' adoravano.
Però, i bei tempi non durarono troppo a lungo. Con il passar degli anni il padrone dell' isola fece dei cattivi affari e così perse i suoi beni.. Per risolvere i problemi ed arricchirsi di nuovo provò a giocare d'azzardo. Il gioco d'azzardo finì male per Karl Kupelwieser che perse tutta la ricchezza ereditata. Il dispiacere per lui fù troppo grande e per questo decise di togliersi la vita. Lo trovarono da solo e senza vita sotto ad un albero di quercia su una collina. Il lutto di famiglia diventò un dispiacere per tutti gli abitanti dell' isola perché in quel momento rimasero senza lavoro, senza casa e senza le bellezze dell'isola.
Mia nonna mi raccontava che pianse tanto ricordando i bei tempi della sua vita che non dimenticò mai fino alla fine dei suoi giorni. Così le sue storie le raccontò a tutti noi e da
grande decise di andare a visitare la sua isola (così lei la chiamava) ogni anno, prima con la sua famiglia e poi con i suoi nipoti e pronipoti.
Adesso mia bisnonna Ita non c'è più però le sue storie vivono con noi e il suo amore per l'isola di Brioni lo abbiamo mantenuto tutti noi famigliari. Così ogni primavera ci organizziamo e tutti insieme andiamo a Brioni per passare una giornata visitando quell' isola veramente unica e magnifica.
Ho chiesto ai miei vicini di casa di raccontarmi delle vecchie tradizioni per i festeggiamenti dei giorni della più grande festa cristiana e loro contentissimi di raccontarmi e di ricordarsi delle vecchie usanze che devo dire si sono conservate in maggior parte fino ad oggi.
Il giorno del Venerdì Santo, si prevedeva il digiuno e l'astinenza delle carni, ma la carne come anche le pince non si mangiavano neanche alla vigilia di Pasqua perché non sarebbe poi abbastanza per il giorno della Pasqua.
Alla sera del Sabato Santo si andava alla Santa Messa. Alla Messa si andava anche alla mattina di Pasqua, quando veniva benedetto il cibo: le pince, le uova, lo scalogno, il sale, il prosciutto. Tornati a casa della Messa, tutta la famiglia insieme, mangiò il cibo benedetto. Per il pranzo di Pasqua l'usanza sul tavolo era la seguente: il brodo di carne, il cavolo, la pasta fatta in casa, manzo e altra carne. A pranzo ogni famiglia aveva ospiti, arrivavano i parenti. Per cena non si cucinava niente, ma si mangiava quello che era rimasto dai pasti precedenti. Ogni pasto iniziava con la preghiera del ringraziamento al Signore. L'alcol non era proibito, per questo i più vecchi della casa cominciavano la giornata con un bicchiere di grappa e continuavano con il vino che si beveva durante i pasti.
Le usanze che mi piacciono di più, quelle che si tramandano da generazione a generazione anche nella mia casa, sono colorare le uova e la preparazione dei dolci, specialemente delle pince e jajarice. Il colore per le uova si ottiene dalle foglie della cipolla rossa messe nell'acqua insieme alle uova e si cuoce fino ad ottenere un colore rosso delle uova. Le nonne preparavano, oltre le pince tradizionali, le jajarice (trecce di pane dolce con l'uovo intero nella pasta) per i loro nipoti.
Tutto si concludeva con un gioco divertentissimo per i ragazzi ma anche per tutti gli altri, „il tiro all' uovo“. L'uovo bollito e colorato si appoggiava al muro e con una moneta lo si doveva colpire. Il vincitore era quello che colpì per primo l'uovo e come premio si ricevevano i soldi, naturalmente spiccioli.
Credo che queste tradizioni sono bellissime e che le dobbiamo mantenere e curare e tramandare da generazione a generazione, per non dimenticarle.
ARENA DI POLA
Come una ciotola
Di pietra con tante
Finestre e finestrelle,
Archi e archetti,
Due leoncini dietro
La porta di Arena.
Dove il Sole si fa
Il bagnetto e specchia
Il cielo blu…
motto LE LETTERINE DELL’ALFABETO